“Com’era possibile che in questo luogo nascessero dei bambini?”. La Buenos Aires dei desaparecidos e l’Argentina di domani.
tratto da "Valiglia Blu" del 13 ottobre 2023
Qui, le detenute “terroriste” che al momento della cattura erano in stato di gravidanza partorivano su di un tavolo, bendate, tra percosse ed insulti, i bambini e le bambine che venivano sottratti loro poco dopo la nascita. Nella maggior parte dei casi, quei neonati erano l’unico motivo per cui le donne erano mantenute in vita fino a quel momento.
La pratica del “robo de niños” (furto di bambini) fu operata in modo sistematico alla ESMA e in altri centri clandestini di detenzione (CCD). “I bambini non hanno colpa”, si dicevano i perpetratori per giustificare quel disumano furto, “sarebbero stati cresciuti da gente per bene” (cioè ceduti a famiglie di militari o vicine al regime oppure venduti). Nel piano dei carnefici, i bambini non avrebbero mai conosciuto la propria identità di figli di genitori assassinati; le madri, infatti, venivano poi uccise con i “voli della morte”, sedate e gettate ancora vive nel Rio della Plata. I militari dell’ESMA chiamavano questa pratica di uccisione dei prigionieri (l’81% dei quali aveva tra i 16 e i 35 anni) traslado (trasferimento), un modo per nascondere, agli altri e probabilmente a loro stessi, uno dei più crudeli stermini che si possa immaginare.
“¿Qué ocurría realmente con la madre y el hijo? Desde que la embarazada llegaba, su destino estaba decidido. El de ambos. Para la madre el traslado, para el hijo la duda” (Che cosa succedeva davvero alla madre e al figlio? Da quando la ragazza incinta arrivava, il suo destino era segnato. Quello di entrambi. Per la madre il trasferimento, per il figlio il dubbio”).
A centotrentatré di quei bambini è stata restituita la propria identità, non senza dolore, tramite il lavoro delle Abuelas (nonne) de Plaza de Mayo, madri di desaparecidos e nonne di nipoti rubati, definiti in spagnolo apropiados.
Le Abuelas, in particolare, hanno lavorato instancabilmente e di concerto con la comunità scientifica per creare la prima Banca nazionale di dati genetici, che ha permesso di determinare la filiazione di ragazze e ragazzi nati durante la dittatura, che hanno dubbi sulla propria identità. Lo hanno fatto usando l’índice de abuelidad (nonnità), tramite il proprio DNA, in assenza di quello dei figli scomparsi.
Quando si entra in un luogo come l’ex-ESMA - solo uno dei 700 edifici pubblici che furono utilizzati dalla giunta come centri clandestini di detenzione - si prova una sensazione di freddo, oppressione, difficile da descrivere. Ci sono la stanza del parto, i luoghi di detenzione, le foto di giovani poco più che bambini. Tra le tante domande che ci si fa di fronte a quei pannelli che illustrano la crudeltà umana, non si può non chiedersi anche con quale forza un gruppo di donne comuni, le Madres de Plaza de Mayo, abbiano potuto presentarsi di fronte al palazzo di quel potere assassino, la Casa Rosada, per chiedere direttamente ai responsabili dove fossero i loro figli. I desaparecidos sono 30mila si legge oggi nei murales di Buenos Aires.
Da quel primo
giorno in cui si ritrovarono in Plaza de Mayo, il 30 aprile 1977, le madri non
hanno mai smesso di portare avanti il loro movimento pacifico di resistenza,
non solo per cercare i loro desaparecidos, o un luogo dove
piangerli, ma anche per chiedere verità e giustizia e portare avanti progetti
di aiuto agli ultimi della società argentina.
Di fronte alla
Casa Rosada, c’è una piccola traccia di quegli incontri, che si svolgono ogni
giovedì da 46 anni. La pavimentazione della piazza attorno alla Pirámide de
Mayo disegna un cerchio di volti con indosso fazzoletti bianchi, simbolo delle
Madres. Sono disposti in senso circolare perché è in quel modo che le madri
cominciarono la loro protesta, tenendosi sotto braccio con sul capo i vecchi
pannolini di tela dei loro figli.
Proprio con quel
foulard bianco, con sopra scritto Franca Jarach, ci ha accolto nel suo
appartamento di Buenos Aires, Vera Vigevani Jarach, una di queste madri straordinarie. È ormai anziana ma questo non
impedisce di notare la somiglianza con il ritratto della figlia Franca che
ripone di fianco a sé con infinita cura.
Chi sarebbe oggi
Franca?
Vera su questo
sembra non avere molti dubbi, ci spiega che, quando i militari la
sequestrarono, Franca aveva solo diciotto anni ma era già convinta che la sua
scelta sarebbe stata quella di dedicarsi agli altri. Stava studiando per
diventare un’educatrice e voleva contribuire a costruire una società più
giusta.
I suoi desideri,
invece, sono rimasti lì, cristallizzati in un ricordo; e quella stessa foto che
Vera ci mostra orgogliosa si trova su uno dei pannelli del percorso di memoria
all’ex-ESMA, dove scomparve per sempre.
Vera ci racconta
che non la convince che nel memoriale si trovi anche uno degli aerei che
vennero usati per i “voli della morte” con cui i sequestrati venivano gettati
nel Rio, non riesce a sopportare di vederlo.
Dice che lei e
le altre Madres rimaste si incontrano spesso, insieme ai membri
dell’associazione, e non sono sempre d’accordo su tutto, ma cercano di guardare
all’Argentina di oggi, a chi ha più bisogno. Ammira molto anche il lavoro delle
Abuelas, “sono state geniali”, dice.
Quello che
accomuna tutte quelle donne, oltre alla tragedia che hanno vissuto, al coraggio
che hanno dimostrato, alla solidarietà con cui si sono sostenute, è la volontà
di guardare anche avanti.
Vera, che ha 95 anni, sembra avere la forza di mille persone quando dice che continua ad andare nelle scuole per spiegare i valori della democrazia e aggiunge che ha deciso solo ora di fare la pratica per la nazionalità argentina, non perché le serva ma perché ora che il suo Paese è di nuovo in pericolo - minacciato dal negazionismo nella politica, dal ritorno di parole violente - lei vuole esserci.