tratto dal Post del 22 settembre 2023
Quasi tutti amano gli animali, quasi tutti li
mangiano: come si spiega questa dissonanza cognitiva?
L’interno di un
ristorante ad Atlanta, il 22 ottobre 2013 (AP Photo/David Goldman)
Nel 2016 uno studio del dipartimento di psicologia
dell’Università di Oslo, pubblicato sulla rivista scientifica Appetite, analizzò attraverso diversi
esperimenti i modi in cui le persone tendono a dissociare la carne di cui si
nutrono dalle sue origini animali. La disponibilità a mangiarla, scoprirono i
ricercatori, cambia a seconda di vari
fattori che agiscono sulla nostra empatia e sul nostro disgusto: per esempio il
modo in cui la carne viene presentata (se trasformata o non trasformata, con la
testa dell’animale o senza), e anche le parole utilizzate per parlarne (usare
“manzo” anziché “mucca”, “produzione” anziché “macellazione”).
Confermando un’impressione abbastanza comune, lo
studio appurò che molte persone amano mangiare carne, ma amano allo stesso
tempo gli animali non umani e non vogliono causargli dolore. Attraverso una
serie di processi psicologici inconsci e pratiche culturali evitano quindi di
affrontare questa «dissonanza cognitiva»: un fenomeno noto nella ricerca
scientifica di riferimento come «paradosso della carne», che si riflette
inevitabilmente su altri fenomeni su più ampia scala.
Uno tra questi è che, sebbene gli argomenti etici per
non mangiare carne siano oggi conosciuti e popolari molto più di quanto lo
fossero cinquant’anni fa, la macellazione di animali aumenta di anno in
anno, e non soltanto come conseguenza dell’aumento della popolazione e della
ricchezza in paesi molto popolosi, in precedenza troppo poveri per permettersi
la carne. È in aumento anche in paesi ad alto reddito come gli Stati Uniti, ha
fatto notare sull’Atlantic il filosofo australiano
Peter Singer, autore nel 1975 di Liberazione animale, uno dei libri più citati in assoluto nel dibattito sui diritti degli
animali.
Nello specifico è in aumento il consumo di pollame:
che dal punto di vista del benessere degli animali «è anche peggio», osserva
Singer. Per produrre la stessa quantità di carne bisogna infatti uccidere più
uccelli, spesso allevati in condizioni di maggiore sovraffollamento rispetto a
quanto succeda con le mucche. «Non avrei mai potuto prevedere che lo stile di
vita vegano e quello carnivoro potessero crescere di pari passo nella stessa
società», ha scritto Singer, riflettendo sull’influenza del suo libro e
sintetizzando la conseguenza più evidente e significativa del paradosso della
carne.
L’allora primo ministro del Regno Unito David Cameron dà da mangiare a un agnello in una fattoria a Chadlington, in Inghilterra, il 5 aprile 2015, due giorni prima delle elezioni generali (AP Photo/Leon Neal)
L’espressione “paradosso della carne” risale a
uno studio pubblicato nel 2010
su Appetite dagli
psicologi australiani Steve Loughnan, Nick Haslam e Brock Bastian. Esiste un
«conflitto psicologico», scrissero, tra il gusto alimentare delle persone per
la carne e la loro risposta morale alla sofferenza degli animali. Da un lato
proviamo empatia verso gli animali, ma dall’altro la nostra architettura cognitiva
è strutturata in modo da
dare priorità ai cibi ad alto contenuto calorico, indipendentemente da altre
valutazioni. E per un’ampia parte della storia umana questo ha significato
mangiare carne.
Per risolvere questo conflitto, secondo Loughnan,
Haslam e Bastian, le persone applicano una serie di soluzioni. La prima è
smettere di mangiare carne, banalmente, in modo da non provare più sentimenti
negativi determinati dall’incoerenza tra l’amore per gli animali e il
cibarsene. Un’altra è indebolire attraverso diverse abitudini e pratiche umane
consolidate – tra cui l’agricoltura aziendale su larga scala – la relazione tra
gli animali e la carne, offuscare quella relazione attraverso i vari processi lungo
la catena di produzione, in modo da non mettere sullo stesso piano il manzo
ordinato al ristorante e le mucche che pascolano. E un altro modo ancora di
risolvere la dissonanza cognitiva, suggerì lo studio, è privare gli animali di
uno status morale e negare la loro capacità di soffrire.
Per una parte dello studio del 2010 Loughnan, Haslam e
Bastian somministrarono alcuni questionari distinti a due gruppi di persone. A
entrambi i gruppi fecero credere che il questionario oggetto dello studio
riguardasse la valutazione di uno snack (qualità come tenerezza, dolcezza e
sapidità): a un gruppo fu assegnato uno snack a base di carne secca, all’altro
degli anacardi. Successivamente, in un questionario aggiuntivo e non correlato,
in cui era richiesto di reinserire da capo i dati demografici, ai partecipanti
fu chiesto di valutare le loro preoccupazioni morali verso una varietà di
animali come cani, galline e scimpanzé, e di stimare quanto siano senzienti e
intelligenti le mucche. I risultati mostrarono che i partecipanti che avevano
mangiato carne secca avevano valutato le mucche come meno senzienti e meno
intelligenti, e avevano espresso preoccupazioni morali per un minor numero di
animali, rispetto al gruppo che aveva mangiato anacardi.
La scoperta centrale dello studio fu che la scelta di
mangiare carne induce tendenzialmente le persone a preoccuparsi meno sia degli
animali in generale che dell’animale che hanno mangiato, e a negare a
quell’animale requisiti neurofisiologici associati alla capacità di soffrire.
Questo risultato fu considerato molto importante e in parte sorprendente.
Mentre le ricerche precedenti avevano infatti dimostrato che la volontà di
mangiare carne può essere ridotta dalla preoccupazione morale per gli animali,
lo studio di Loughnan, Haslam e Bastian fu il primo a dimostrare
sperimentalmente il processo inverso: mangiare animali porta a una minore
preoccupazione morale. Ed è correlato anche a un restringimento del gruppo di
animali meritevoli di considerazione morale.
– Leggi anche: Guarderemo con orrore a come trattiamo gli animali di cui
ci nutriamo?
Altri studi nel corso dell’ultimo decennio hanno
confermato molte delle osservazioni di Loughnan, Haslam e Bastian. In uno degli
esperimenti dello studio del 2016 dell’Università di Oslo, citato all’inizio dell’articolo, le
pietanze a base di carne trasformata resero i partecipanti meno empatici nei
confronti dell’animale macellato rispetto alle pietanze a base di carne non
trasformata. Questo comportamento fu considerato compatibile con i risultati di uno studio precedente secondo cui, per il consumatore medio – che
non prende parte alle varie fasi della macellazione dell’animale –, l’acquisto
di carne in una fase avanzata della trasformazione facilita il processo di
dissociazione tra la carne e l’animale.
In un altro esperimento dello studio del 2016, per le
stesse ragioni di dissociazione, la vista di un intero maiale arrosto evocò
minori empatia e disgusto nei casi in cui l’animale era stato presentato senza
la testa. E questo rese i partecipanti più disposti a mangiare l’arrosto e meno
disposti a considerare alternative vegetariane. La vista di un animale vivo in
una pubblicità di carne, invece, aumentò l’empatia verso l’animale, il disgusto
per la carne e la disponibilità a scegliere un piatto vegetariano alternativo.
E lo stesso risultato fu ottenuto sperimentalmente quando nel menu del
ristorante la parola “manzo” veniva sostituita con “mucca”.
(AP Photo/Mark Schiefelbein)
Consapevoli del paradosso della carne, diverse
associazioni contro il maltrattamento degli animali da allevamento sono
impegnate da anni nel cercare di raggiungere obiettivi realistici e a breve
termine, e cioè migliorare le condizioni degli animali e minimizzarne le sofferenze.
L’imprenditore inglese Rob Percival, autore del libro The Meat Paradox: Eating, Empathy,
and the Future of Meat, è responsabile delle
politiche alimentari della Soil Association, un’organizzazione non profit
inglese che sostiene le pratiche di agricoltura biologica, un maggiore
benessere degli animali e un minore consumo di carne.
Percival, che non è vegano, trascorre molto del suo
tempo conducendo campagne contro la pratica dell’allevamento intensivo, ma
sostiene che gli animali dovrebbero continuare a svolgere un ruolo nel sistema
agricolo e alimentare, benché molto più limitato e umano di quello attuale. E
ritiene che il paradosso della carne sia un importante fattore nell’eccesso nel
consumo mondiale di carne: eccesso che è a sua volta un importante acceleratore
del cambiamento climatico.
– Leggi anche: Quanta carne può mangiare il mondo?
Nel suo libro Percival racconta un aneddoto a
proposito della dissociazione cognitiva tra carne e animali, e della tendenza
delle persone a non porsi domande sulla condizione dell’essere un animale da
macello. In una conversazione da lui avuta con Charles Way, responsabile della
garanzia della qualità dei prodotti della catena di fast food KFC nel Regno
Unito e in Irlanda, Way gli disse di essere orgoglioso degli standard di
benessere degli animali utilizzati nella filiera di KFC. E Percival gli chiese:
«Se sapessi di dover rinascere pollo, preferiresti davvero nascere in una
fattoria della filiera di KFC piuttosto che in una qualsiasi altra azienda
agricola nel Regno Unito?».
Way gli rispose di no, che in quel caso non farebbe
differenza per lui il fatto che gli standard di KFC siano migliori rispetto
alla media nel settore. «E se sapessi che rinascerai pollo, [oggi] mangeresti
meno pollo?», gli chiese dopo. E Way non rispose.
Un’insegna di un ristorante
a Londra, l’8 aprile 2006 (Daniel Berehulak/Getty Images)
Percival cita poi un altro argomento a volte
utilizzato dalle persone onnivore, in diverse varianti, per ridurre la
dissonanza cognitiva e risolvere il paradosso della carne. E cioè l’idea che
esista una relazione simbiotica reciprocamente vantaggiosa tra persone e
bestiame, una sorta di «antico contratto» interspecifico: un’espressione tratta
dal titolo di un articolo pubblicato nel 1989 dallo scrittore e storico
statunitense Stephen Budiansky, e da lui poi ripresa nel libro The Covenant of the Wild: Why Animals
Chose Domestication.
Secondo questa idea gli animali forniscono cibo e
indumenti agli esseri umani in cambio dell’addomesticamento, e la possibilità
di avere nutrimento e rifugio rappresenterebbe per loro l’opportunità di avere
successo sul piano evolutivo rispetto ad altre specie. Alcuni studiosi e
scrittori che hanno ripreso e reso nota in tempi più recenti l’idea dell’antico
contratto, tra cui il giornalista statunitense Barry Estabrook, sostengono che
l’attuale allevamento industriale di animali ne sia una violazione. Ma secondo
Percival alla base di questa idea del contratto c’è comunque un’illusione:
«Nessun singolo animale ha approvato i termini dell’accordo».
– Leggi anche: Come convincere le persone a mangiare meno carne
La presenza del paradosso della carne nella società,
come ha scritto Singer
sull’Atlantic, non è in sé una
condizione che impedisca qualsiasi cambiamento nel rapporto tra gli esseri
umani e gli animali da bestiame. Nei decenni successivi alla pubblicazione
di Liberazione animale il
movimento per il benessere degli animali ha ottenuto importanti riforme,
specialmente in Europa, dove una direttiva dell’Unione
Europea in vigore dal 2012, per esempio, vieta l’allevamento di galline ovaiole
nelle batterie (gabbie grandi all’incirca come un foglio A4).
«Questi cambiamenti sono ben lontani da ciò che è
necessario, ma garantiscono a centinaia di milioni di animali una vita
migliore», ha scritto Singer. Inoltre alcune prove sperimentali suggeriscono
che le argomentazioni etiche abbiano oggi, rispetto al passato, maggiori
probabilità di influenzare le persone e la loro decisione di non contribuire
alla morte né alla sofferenza degli animali. Singer ha citato in particolare
uno studio condotto nel 2016 e
pubblicato nel 2020 sulla rivista Cognition,
in cui fu coinvolto dagli altri due autori e colleghi, i filosofi statunitensi
Eric Schwitzgebel e Bradford Cokelet.
Una cliente in attesa in un
ristorante di carne australiana a Pechino, in Cina, il 28 agosto 2020 (AP
Photo/Ng Han Guan)
Lo studio cercò di misurare quanto le lezioni
universitarie di etica filosofica influenzassero le scelte morali degli
studenti nella realtà. Schwitzgebel, Bradford e Singer divisero casualmente in
due gruppi uguali un gruppo di 1.032 studenti di quattro grandi classi di
filosofia della University of California, Riverside. Assegnarono a entrambi i
gruppi il compito di leggere e discutere un articolo di filosofia: un articolo
sull’etica del consumo di carne, a un gruppo, e uno sull’etica della
beneficenza, all’altro. Controllarono quindi le scelte alimentari degli
studenti dopo quella lezione, potendo consultare le ricevute degli acquisti
nelle mense e nei ristoranti del campus da parte degli studenti della Riverside
che avevano utilizzato la loro tessera universitaria personale per pagare i
pasti (495 su 1.032).
I risultati dello studio mostrarono che il consumo di
carne era rimasto invariato tra i partecipanti del gruppo di controllo, cioè
quello che si era occupato dell’articolo sull’etica della beneficenza, ma era
leggermente diminuito nel gruppo che aveva discusso di etica sugli animali. Un
successivo studio, pubblicato nel 2019,
ottenne risultati simili utilizzando una lezione non sulla sofferenza degli
animali ma sul ruolo del consumo di carne nel riscaldamento globale. E quei
risultati furono confermati anche a tre anni di distanza dalla lezione.
Un altro dei fattori che rafforzano il paradosso della
carne è l’influenza reciproca tra le persone, anche quelle che si dicono
contrarie alla sofferenza degli animali ma continuano a mangiare carne. Diversi
noti esperimenti di
psicologia sul conformismo all’interno dei gruppi sociali, condotti fin
dagli anni Cinquanta, mostrano come le convinzioni e opinioni della maggioranza
possano condizionare le valutazioni e persino le percezioni degli individui.
Riferendosi alle persone onnivore che gli dicono di
essere d’accordo con lui, Singer ha scritto che la maggior parte delle persone
può continuare a fare qualcosa che ritiene sbagliato purché ci siano altre persone
che lo fanno. E quelle che approvano la sua scelta e le sue riflessioni in
realtà è come se dicessero «che hanno a cuore il benessere degli animali e il
cambiamento climatico, ma non modificheranno le loro abitudini individuali
finché non lo faranno tutti gli altri».
I risultati di alcuni referendum negli Stati Uniti secondo Singer suggeriscono che le argomentazioni etiche siano effettivamente prese in considerazione dalla popolazione, ma che l’effetto di quelle argomentazioni sia più potente a livello di cambiamenti politici sostenuti dall’elettorato, più che di cambiamenti nelle abitudini di acquisto al supermercato. Molte persone pensano che le loro azioni individuali contino poco e niente nel complesso, ha scritto Singer, ma quando viene data loro l’opportunità di esprimere un voto su proposte che riguardano il trattamento degli animali la maggioranza è poi spesso favorevole all’approvazione di leggi che migliorano le condizioni degli animali e riducono le opzioni di acquisto della carne.