L’umiltà ci permette di abbattere le barriere tra noi e il mondo, permettendoci di vedere le cose nella loro vera essenza, al di là delle nostre proiezioni egoistiche.
QUESTO TESTO È ESTRATTO DA “ELOGIO DEL FALLIMENTO” DI COSTICA BRADATAN, RINGRAZIAMO L’AUTORE E IL SAGGIATORE.
Molti di noi,
che ne siano consapevoli o meno, soffrono di un particolare disturbo: la
sindrome dell’umbilicus mundi, una tendenza
patologica a collocarsi al centro di ogni cosa, e a immaginare di essere ben
più importanti di quanto non siamo in realtà. Da un punto di vista cosmico,
dev’esserci qualcosa di terribilmente comico nell’Homo
sapiens. Ci comportiamo quasi sempre come se il mondo esistesse solo per
noi; pensiamo a tutto nell’ottica dei nostri bisogni, intenti, interessi. Non
soltanto ci appropriamo delle altre specie – le distruggiamo. Non usiamo la
terra, ne abusiamo, privandola di vita e riempiendola di spazzatura. Per
stupidità o cupidigia, o entrambe le cose, abbiamo sottoposto il mondo naturale
a una tale barbarie che potremmo tranquillamente averlo danneggiato in maniera
irreversibile. Di norma, siamo completamente indifferenti alla sofferenza
altrui, e incapaci di relazionarci con loro in modo significativo. Lungi
dall’«amare il prossimo tuo», non facciamo che sfruttare, deridere o non
tollerare gli altri, quando non ci limitiamo semplicemente a ignorarli.
A rendere
particolarmente ridicola la nostra situazione è che, visti all’interno di una
prospettiva più ampia, siamo creature del tutto insignificanti. Tiranni
lillipuziani. Il sassolino più piccolo che raccogliamo a caso nel letto di un
fiume ci ha preceduto di chissà quanto tempo, e ci sopravviverà. Non siamo più
importanti del resto del mondo; anzi, in effetti, lo siamo meno della maggior
parte delle cose.
La buona notizia
è che forse c’è una cura per questa malattia. La rottura del motore sull’aereo,
dell’impianto frenante della nostra auto, o di quello dell’ascensore può
scaraventarci in una così profonda devastazione che, se mai sopravvivessimo a
tale esperienza, ci ritroveremmo trasformati. A definire la nostra vita così
modificata sarà un nuovo senso di umiltà: il fallimento ci ha umiliato, e da
qui può arrivare la guarigione. La parola «umiltà» ha una connotazione morale,
ma più che una virtù in senso stretto, essa implica un certo tipo di
collocazione nel mondo, e un modo specifico di esperire la condizione umana.
L’umiltà non è una virtù qualsiasi, come ci ricorda Iris Murdoch: è «una delle
virtù più difficili e più importanti».
Nella Sovranità del Bene, Murdoch
offre potenzialmente una delle migliori definizioni di umiltà, descrivendola
come «rispetto disinteressato per la realtà». Solitamente, pensa, rappresentiamo
la realtà in modo errato perché abbiamo una concezione esagerata del nostro
posto al suo interno; «la rappresentazione che abbiamo di noi stessi è
diventata troppo grandiosa», e di conseguenza abbiamo perso «la visione di una
realtà separata». Questa rappresentazione errata ci danneggia più di ogni
altra cosa, e se non facciamo nulla per correggerla, finiremo per essere
tagliati fuori dal mondo, vivendo all’interno di una realtà creata da noi
stessi. L’umiltà ci offre questo tipo di correttivo.
Alcuni dei
personaggi più teneri nei film di Yasujirō Ozu sono martiri dell’umiltà:
preferirebbero sprecare la propria vita, anziché farsi valere. La grandezza
dell’arte di questo regista giapponese, tuttavia, sta nel fatto che non
rappresenta soltanto l’umiltà: la incarna e la realizza. Grazie all’utilizzo
delle inquadrature dal basso, Ozu ci fa avvicinare a un altro lato delle cose,
alla loro dimensione più modesta, che noi – egocentrici come siamo –
solitamente ci perdiamo. È esattamente questo il metodo dell’umiltà.
Proprio come nei
film di Ozu, dove le inquadrature dal basso danno vita a un mondo
sorprendentemente vario, una prospettiva umile ci permette di accedere a quel
grado di realtà che normalmente non vediamo. Ciò accade perché l’impulso di autoaffermazione
alza un muro tra noi e il mondo, e quello che finiamo per vedere non è più il
mondo in sé, bensì le nostre fantasie assertive: mere proiezioni di potere. È
solo tramite l’umiltà, l’opposto dell’autoaffermazione, che possiamo abbattere
questo muro e intravedere le cose per come sono davvero.
Più che una
forma di comportamento, quindi, l’umiltà dovrebbe essere considerata una forma
di conoscenza. Non dovrebbe stupirci che mistici e filosofi di vario tipo
abbiano collegato l’umiltà a una certa concezione della verità. Secondo questa
linea di pensiero, l’umiltà, per quanto possa essere una pratica purificatoria,
non andrebbe perseguita di per sé, ma per il bene superiore a cui conduce.
Bernardo di Chiaravalle paragona l’umiltà a una scala: la si sale, un gradino
alla volta (dodici in tutto), finché non si arriva «al massimo grado
dell’umiltà» (summae humilitatis). È qui
che si trova finalmente la verità, per amore della quale si è salita l’intera
scala. Per usare le sue parole: «La via è l’umiltà, lo scopo è la verità. La
prima è la fatica, la seconda la ricompensa». Proseguendo nella stessa
tradizione, André Comte-Sponville definisce l’essere umili come «amare la
verità più di se stessi».
C’è qualcosa di unico nella verità a cui ci dà accesso l’umiltà. Non si tratta soltanto di acquisire una comprensione migliore, più «veritiera» di come stanno le cose, anche se questa, già di per sé, non è impresa da poco. Lungo il percorso, ci succede qualcosa di importante: man mano che saliamo la scala e guardiamo il mondo da lassù, stiamo subendo una trasformazione. Quando l’umile raggiunge la vetta, si scopre posseduto da un rinnovato senso di sé – un sé riformato. Per chi è credente, si tratta di un’epifania della redenzione: «Grandezza degli umili» scrive Comte-Sponville. «Essi vanno al fondo della loro piccolezza, della loro miseria, del loro nulla: laddove non c’è più niente e dove c’è tutto.»
COSTICA BRADATAN (DRĂGOIEȘTI, 1971) È UN FILOSOFO ROMENO-AMERICANO, PROFESSORE DI STUDI UMANISTICI ALLA TEXAS TECH UNIVERSITY E PROFESSORE ONORARIO DI FILOSOFIA ALL’UNIVERSITÀ DEL QUEENSLAND IN AUSTRALIA.