tratto da “Internazionale” del 20 settembre 2023
Nessuno può
sorprendersi davanti alla ripresa delle ostilità nel Nagorno Karabakh, enclave
armena all’interno del territorio dell’Azerbaigian. La guerra è la conseguenza
logica del blocco imposto da mesi dall’esercito azero, che approfittando della
crisi del sistema internazionale provocata dall’invasione russa dell’Ucraina
sta cercando di sfruttare il suo vantaggio militare.
Chi può impedire
all’Azerbaigian di conquistare Stepanakert, capitale dell’enclave ancora
popolata da diverse decine di migliaia di armeni? Gli azeri, che hanno definito
l’intervento “operazione antiterrorismo” in risposta alla morte di sei agenti
di polizia, possono contare su un esercito molto più forte.
La Russia, tradizionale “gendarme” del Caucaso, è occupata altrove, e già nel 2020 aveva permesso che l’Armenia perdesse l’ultima guerra di un lungo conflitto con l’Azerbaigian, nonostante il trattato di difesa che in teoria impegnava Mosca a difendere il paese. Quanto all’Onu, ormai ha solo una funzione di tribuna, senza la minima capacità di azione.
Gli armeni del
Karabakh sono dunque soli, anche perché la repubblica armena è troppo debole
per ribaltare il rapporto di forze. Colpevole di aver dichiarato che l’esercito
armeno non interverrà, il primo ministro Nikol Pashinyan è diventato il
bersaglio delle proteste violente a Erevan, la capitale del paese.
Il 19 settembre
il governo di Baku ha inviato agli armeni del Karabakh un ultimatum che, se
sarà portato alle estreme conseguenze, potrebbe provocare la scomparsa
dell’enclave. L’esercito azero vorrà quanto meno disarmare i separatisti e
reintegrare il Nagorno Karabakh nel proprio territorio.
È evidente che
oggi esiste il rischio di una pulizia etnica che costringerebbe alla fuga tutti
gli armeni che non vogliono diventare cittadini azeri. D’altronde si tratta di
una minoranza senza alcuna protezione all’interno di un paese considerato come
nemico. Baku è determinata a proseguire su questa strada, anche perché
l’Armenia, nel periodo in cui ha controllato la zona – fino alla sconfitta del
2020 – aveva spinto circa trecentomila azeri a lasciare i loro villaggi.
Davanti all’aggressività con cui il governo azero ha respinto le proteste francesi, arrivate il 19 settembre, si ha l’impressione che Baku non tema nulla. Forte del sostegno della Turchia di Recep Tayyip Erdoğan e delle sue esportazioni di idrocarburi, l’Azerbaigian ritiene che il rapporto di forze gli sia favorevole.
L’onda d’urto di
questi eventi è considerevole. Prima di tutto in Armenia, dove una parte della
popolazione non tollererebbe l’abbandono dell’enclave e ne farebbe pagare il
prezzo al governo Pashinyan. Ma soprattutto, dopo l’invasione dell’Ucraina,
questo è il secondo caso in cui un paese ricorre alla forza per risolvere dei
contrasti con altre nazioni. Nel vuoto del governo mondiale c’è il rischio che
non sia l’ultima volta.
L’Azerbaigian
non ha permesso all’Europa di ricoprire il ruolo di mediatore. La Francia e il
presidente del Consiglio europeo Charles Michel hanno tentato di conciliare i
punti di vista, ma senza averne il peso necessario, soprattutto considerando
che di recente la Commissione europea si è rivolta all’Azerbaigian chiedendogli
di aumentare la fornitura di gas per compensare la rinuncia a quello russo.
Tutto questo evidenzia un’incapacità di prevedere gli eventi sia da parte dell’Armenia, che non ha tenuto conto di un rapporto di forze ormai rovesciato, sia del mondo intero, incapace di disinnescare in tempo la crisi. Purtroppo oggi c’è il rischio concreto che sia la violenza ad avere l’ultima parola.