Una riflessione su appocundria partenopea e malinconia di sinistra.
Francesco Sticchi insegna Film Studies alla Oxford Brookes University. Si occupa di Film-Philosophy con particolare attenzione a produzioni che trattano il tema della precarietà.
Tratto da “Il Tascabile” del 9 settembre
2023
Da quando Mark Fisher ha dato un volto sociale e collettivo alla sua
depressione, parlare della natura politica di questo stato mentale, così
pervasivo e tipico nel mondo contemporaneo, ha smesso di essere un tabù. I
tempi morti in attesa di un futuro spaventoso, la sensazione di vivere in un
mondo grande e terribile, il senso d’impotenza e inadeguatezza rispetto ad
esso, se non l’angoscia di essere falliti, in tutti i possibili sensi della
parola, e la crudele incapacità di vivere, non erano più le caratteristiche di
tante storie di alcun1, isolati e nascosti nella propria quotidianità. Queste
passioni tristi diventavano, nei suoi saggi, tanto reali e parte
dell’infrastruttura circostante, quanto pervasiva può apparire una fitta rete
autostradale estesa su scala globale: capace di connettere luoghi, modi e forme
di vita con la loro specificità seppur accomunati dalla consapevolezza di
condividere un medesimo piano esistenziale.
La depressione,
quel senso di essere un “good for
nothing” (un buono a nulla), in grado di cadenzare, come un
perturbante leitmotif, il
ritmo di tante vite, tuttavia, raramente assume toni romantici e fatalisti;
perlopiù non conduce alla ribellione o a uno sprezzante rifiuto; non tende
a prendere la forma aristocratica e anarchica del flȃneur, fieramente inadatto, in grado di opporre l’ozio e la
creazione individuale a ogni forma di oppressione collettiva, di affermare
l’incontrollabilità della vita contro ogni categoria posta al di sopra di essa;
essa vive piuttosto ripiegata, riflessa continuamente su pareti in cui il
proprio “io” (il parassita della vita diceva Gadda) diventa una gabbia inevitabile, un schermo che
deforma senza pietà ogni percezione.
Depressione e
malinconia non si manifestano soltanto all’interno degli individui e della loro
esperienza personale, ma sono divenute pesante patrimonio politico della
modernità.
La risposta di
Fisher a questa apparente trappola di impotenza individuale mi è sempre
sembrata definirsi attorno a un complesso vitalismo in cui la depressione
smetteva di essere esclusivamente una patologia da denunciare e curare;
depurata da narcisistiche dinamiche di colpa (in grado di combinare
auto-esaltazione e mortificazione), essa veniva, invece, canalizzata nel
desiderio di politicizzare ciò che nella propria vita appariva insostenibile,
nel bisogno di conflitto e, così, legata ad un’entusiastica rabbia capace di
riconnettere soggettività, di aprire una breccia in quello che lui chiamava “il castello dei vampiri”. Depressione e
malinconia, appunto, non si manifestano soltanto all’interno degli individui e
della loro esperienza personale, per quanto comune e condivisa; in quanto
affetti del presente, sono divenute pesante patrimonio politico della
modernità. La stesso teorico inglese, infatti, legava questi stati anche
all’assenza di necessarie organizzazioni e efficaci pratiche solidali
all’interno della vasta galassia progressista, afflitta dall’individualizzante
e autoreferenziale culto della purezza militante.
Per Enzo
Traverso la malinconia di sinistra costituisce una vera e propria tradizione nascosta che,
emblematicamente nel lavoro di Walter Benjamin, si concentra nell’elaborazione
di grandi sconfitte storiche. I vinti nell’infinita lotta contro l’oppressione
capitalista ci perseguitano come spettri; chiedono vendetta o reclamano le
nostre memorie al punto di richiedere l’istituzione di una vero proprio culto
martirologico (“lutto e militanza”). Insieme ad esso viene la convinzione di
sentirsi esiliatɜ dalla storia (coloro che hanno perso il sol dell’avvenire),
di essere statɜ messɜ da parte e, quindi, maggiormente incapaci di intervenire
su un mondo non in grado di rispondere e reagire in modo appropriato ad
angosciose questioni presenti e minacce future. Le analisi di Furio Jesi sulla
memoria della sconfitta spartachista (e sull’intera macchina mitologica costruita
intorno all’icona di Spartaco, il Cristo dei proletari) evidenziano i rischi
legati a narrazioni escatologiche completamente focalizzate su una passività
rispetto alla storia. Per farla breve, in una prospettiva in cui il dado è già
stato tratto e si deve solo fare i conti con il risultato finale, il piacere
legato alla celebrazione di tragici agnelli sacrificali sostituisce il bisogno
di costruire una nuova immaginazione politica.
Pertanto,
collettivamente, la malinconia di sinistra si struttura come un fenomeno
problematico sotto vari punti di vista: lo struggimento dolce a cui essa si
accompagna (in cui, come per l’oblio alcolico, si trova conforto nella propria
tormentata tristezza) diventa un ulteriore impulso all’inazione, se non alla
conservazione, come evidenziato da Wendy Brown,
e ad una spinta nichilista nell’affrontare nuove sfide, in cui opportunità e
rischi sono già stati esperiti e dati. La sconfitta e l’esilio fanno dei
militanti malinconici degli individui eletti, in grado di guardare il mondo
dall’alto e pertanto, restii a muoversi da questa posizione di presunta
sicurezza e superiorità. Insieme alla consapevolezza di essere già passati, di
esistere come residui della storia, può emergere anche un profondo rifiuto del
mondo, una volontà di diserzione, che si definisce non in quanto esplicito e
pubblico atto di ribellione politica, ma attraverso l’esaltazione nostalgica e
passatista.
La ‘malinconia
di sinistra’ costituisce una vera e propria tradizione nascosta che,
emblematicamente nel lavoro di Walter Benjamin, si concentra nell’elaborazione
di grandi sconfitte storiche.
In questo senso
è facile vedere, a mio parere, come la malinconia di sinistra possa trovare
anche delle inaspettate continuità in altre tradizioni politiche, filosofiche,
e, soprattutto, estetiche, come, ad esempio, nel pessimismo di estrema destra.
Si può pensare al famigerato Ezra Pound,
a Yukio Mishima – e a tanti altri presunti cavalieri
mancati che volevano ritirarsi nei boschi – o a chiunque, da Spengler in poi,
sia stato ossessionato da tramonti (pleniluni, pomeriggi afosi) di civiltà. In
entrambi i casi, la critica della modernità, il sottolineare l’insostenibilità
delle sue strutture e apparati, seppur apparentemente condivisibili, hanno
invece la funzione di porre una glaciale condanna esistenziale all’inazione,
alla rinuncia, se non, nei peggiori casi, invitare all’accettazione
dell’opzione autoritaria. Il sole nero dei malinconici, funereamente trionfante su
post-apocalittiche lande desolate, attacca senza pietà le vibranti immagini di
vita e possibilità a cui si associano idee di progresso e utopia, facendo del
negativo, nel senso meno dinamico e creativo del termine, l’unico vero motore
della storia e della natura.
Ovviamente
questa breve analisi non si pone come obiettivo quello di condensare e
risolvere tutto il pensiero e l’estetica del negativo con la facile dicitura di
snobismo intellettuale o, peggio, di fascismo o criptofascismo. Da un lato, se
si permette una poco seria parentesi autobiografica, mi sentirei quantomeno
ipocrita nel farlo dal momento che, oltre a essere metallaro (per vocazione
malinconico), ho sempre nutrito un profondo affetto per mondi e personaggi
avvolti da una tragica atmosfera esistenzialista, in cui si vive fuori tempo
massimo, nell’impossibilità di fare veramente i conti con il mondo circostante:
i confusi samurai senza padrone di Kurosawa, le tormentate e perturbanti femmes fatales dei grandi noir,
o i fuorilegge con atavici codici d’onore di tanti e tanti classici sono solo
alcuni esempi di queste potenti figure concettuali.
Da un punto di
vista più sistematico, il negativo, inteso come forza problematizzante,
creativa e conflittuale, costituisce senza ombra di dubbio una delle colonne
portanti della tradizione dialettica (e non solo), così come il motore
affettivo di tanto “pessimismo” (soprattutto nell’arte). Qui, appunto, le
passioni tristi non esistono come afflizioni e condanne, ma diventano materia
magmatica e irrisolta, strumenti attraverso i quali è possibile trovare nuova
forza d’agire, una rinnovata potenza. Del resto, la stessa analisi di Traverso
della malinconia di sinistra è ben più complessa del quadro precedentemente
offerto da me e strettamente legata al bisogno di non denigrare la sua forza e
la sua necessità in relazione a vari corsi e ricorsi storici, così come per la
centralità, nella lotta per l’emancipazione collettiva, del lutto e della sua
elaborazione.
La malinconia di
sinistra si struttura come un fenomeno problematico: lo struggimento diventa un
ulteriore impulso all’inazione.
In tal senso, mi
piacerebbe qui proporre una rilettura politica della depressione e della
malinconia legandole a un altro affetto a me, campanilisticamente, molto
caro: appocundria (che
potrebbe essere anche letta come traduzione dialettale di ipocondria); e
all’opera di quello che credo sia stato il suo più grande interprete
contemporaneo: Massimo Troisi. Nota ai più per uno splendido brano omonimo di Pino Daniele, questa complessa emozione è stata oggetto di diverse
letture: noia, accettazione fatalistica, insoddisfazione esistenziale,
struggente malinconia. In ognuna di esse, appocundria indica uno stato vicino a quello depressivo, un
malessere connesso all’inazione e all’insoddisfazione. Allo stesso tempo,
questa “passione” non assume la forma di una chiusura narcisistica, né un
invito all’autocompiacimento solitario, quanto un continuo e irrisolto richiamo
alla vita. Gli stessi versi di Pino Daniele ne raccolgono la profonda ambiguità:
Appocundria me scoppia / ogne minuto ‘mpietto /peccè passanno forte /
haje sconcecato ‘o lietto /appocundria ‘e chi è sazio / e dice ca è diuno
/appocundria ‘e nisciuno… / Appocundria ‘e nisciuno.
Quest’inquietudine
e vena d’inadeguatezza erano in Troisi continuamente ripresi nei suoi gesti,
che, come racconta la voce narrante di Martone nel recente documentario a lui
dedicato, Laggiù qualcuno mi
ama (2023), avevano una poetica universale, in grado di comunicare
al di là di ogni barriera linguistica. Raccontavano una malcelata fragilità
soprattutto di fronte alla passione amorosa, al desiderio, all’impossibilità di
reprimerlo, e alla sua incostanza, all’essenza mutevole dei sentimenti, allo
stesso tempo sfuggevoli e paralizzanti. Non a caso, uno degli aspetti più
ironici della maschera comica di Troisi, viene ricordato, era un’afasia
stracolma di suoni, in cui l’eccesso verbale, l’incompletezza delle frasi, e la
rimarcata incertezza sembrano continuamente cercare una risposta altrove,
soprattutto nell’interlocutrice femminile.
Da questo
scostamento stilistico e concettuale dall’icona del maschio napoletano —
astuto, sicuro, sempre pronto a recitare una parte esagerata di fronte ad ogni
situazione — nascevano anche delle dinamiche di coppia estremamente originali
(a proposito delle quali non può non essere menzionato il ruolo di autrice di
Anna Pavignano). La voglia di emanciparsi da vecchi schemi relazionali, dai
ruoli e dalle loro funzioni, si scontravano con le aspettative individuali, col
sentire e le vulnerabilità personali, realissime anche quando chiaramente mediate da durature strutture sociali. Non
stupisce, quindi, come la relazione fra il suo personaggio Gaetano e la
compagna Marta (Fiorenza Marchegiani) in Ricomincio da tre (1981) continui a esistere come un
potente stimolo nel pensare e sentire nuovi modi dello stare assieme. Il loro
rapporto, irrisolto e sospeso come i finali dei suoi film, notoriamente vedrà
il protagonista accettare, con struggimento, conflitto e autoironia, “le corna”
e una paternità non biologica, senza trasformare questa scelta in
un’affermazione di superiorità etica, di progressismo intellettuale o di
malposta benevolente carità nei confronti della compagna.
Uno degli
aspetti più ironici della maschera comica di Troisi era un’afasia stracolma di
suoni, in cui l’eccesso verbale, l’incompletezza delle frasi, e la rimarcata
incertezza sembrano continuamente cercare una risposta altrove.
Autoironia e
irrisolutezza, pertanto, esistono come altre caratteristiche ricorrenti della
poetica malinconica di Troisi; per quanto riguarda la prima potremmo
sbrigativamente spiegarla come sintomatica di una più “evoluta” idea di
mascolinità. Invece di trovarci di fronte alla tipica figura romantica maschile
attratta, a sua volta, da presuntamente prestabiliti personaggi femminili (in
termini della storia del cinema, e non solo, io ho molte riserve rispetto a
questo facile schematismo concettuale), Troisi ci offrirebbe la densità della
nevrosi, del disagio che deriva dall’impossibilità di riconoscersi, e la
consapevolezza delle propria vulnerabilità. Allo stesso tempo, come
sottolineava David Foster Wallace, l’autoironia appare anche
come una forma esausta dell’estetica e della narrazione postmoderne. Connessa
all’idea di un intellettualismo smaliziato e cosciente (citazionista, in grado
cogliere limiti e paradossi di scelte stilistiche e posizioni politiche),
l’ironia autoreferenziale tradisce, in molti casi, secondo lo scrittore
statunitense, anche una profonda inabilità nel prendere sul serio fenomeni
artistici e sociali, e di compensare a tale mancanza attraverso un apparente
distacco. Per lo stesso motivo l’ironia postmoderna si nutre anche di eccessi
narcisistici, attraverso i quali il soggetto che ne fa uso decostruisce sé
stesso, deformando la propria immagine per i più svariati scopi ed effetti
(spesso riprendendo le dinamiche di compiacimento e denigrazione
sopramenzionate).
L’autoironia di
Troisi, al contrario, raramente serve un intento riflessivo ed egocentrico e
sembra mossa, piuttosto, dal desiderio di evitare la concentrazione su sé
stessi, anche allo scopo di esorcizzare la costante presenza della morte sul
proprio vissuto. I suoi personaggi nutrono una comicità malinconica proprio
perchè cercano continuamente di smontare la drammaticità e la centralità del
proprio disagio; trasmettono una difficoltà nello gestire i propri sentimenti
ed esprimerli, nel trarre un senso definitivo da situazioni e interazioni in
cui si trovano coinvolti ma, per quanto concentrati su questa fragilità,
evitano di farne un guscio. L’ironia, in questo caso, proietta verso l’esterno,
diventa uno strumento per ricordare ai personaggi, e a noi, che il mondo è
sempre più grande delle nostre piccole miserie personali e che, in un modo o nell’altro,
siamo chiamatɜ a farne parte, che sono le relazioni, più che le immagini che
nutriamo di noi stessi, a formarci. Per questo, anche dalle situazioni tragiche
o luttuose (la storia d’amore al centro di Scusate il Ritardo comincia, con la sequenza d’apertura,
durante un funerale) si può trarre qualcosa di teneramente divertente. La vita
va avanti, in fin dei conti, e si può anche imparare a “soffrire bene” per le pene d’amore, come ci ricorda un famoso sketch di Pensavo fosse amore…invece era un calesse (1991).
Come si
accennava precedentemente, l’irrisolutezza è da considerarsi un altro carattere
essenziale del lavoro di Troisi. Questa si esprime stilisticamente
attraverso famosi fermo-immagine e lunghe inquadrature fisse, in
cui l’interazione dei personaggi, priva di esplicite finalità, prende il
sopravvento oltre ogni bisogno di chiarezza. Allo stesso tempo, nel definire i
rapporti, l’assenza di risoluzione permette anche di evitare facili
consolazioni. La coppia visse per sempre felice e contenta? Forse, ma
probabilmente poco importa saperlo e tale conferma non farebbe giustizia di ciò
che conta veramente; ovvero che per quanto possiamo provvedere spiegazioni per
i nostri sentimenti, elaborare nuovi modi per affrontare le relazioni,
esprimere una saggia – e non richiesta – visione cosciente e d’insieme del loro
strutturarsi, la vita sta nella spinta, nel desiderio di continuare a esistere
intensamente senza fare e farci troppo del male, possibilmente. Per usare le
sue parole: l’amore è difficile e difficile è parlarne o farci dei film “ma un
se vott, dice, che me ne importa”.
L’ironia di
Troisi proietta verso l’esterno, diventa uno strumento per ricordare ai
personaggi, e a noi, che il mondo è sempre più grande delle nostre piccole
miserie personali.
Fin qui ci può
sembrare che l’appocundria legata all’opera di Troisi sia per una buona parte
da attribuire alla ricerca di una moderna educazione sentimentale e a una
sensibilità piccolo-borghese, avrebbero detto i critici cattivi di una volta.
D’altronde, non posso negare come i suoi personaggi, il loro modo di esprimere
le emozioni e le tensioni che li attraversano, sebbene lontani da me (parlare
di identificazione, nel cinema e nelle arti, mi lascia un po’ insoddisfatto),
continuino fin dall’adolescenza ad accompagnarmi con dolcezza per risonanze e
richiami. Ciò detto Laggiù
qualcuno mi ama è sempre teso a sottolineare come la vocazione
intimista di Troisi non fosse mai scissa dalla riflessione politica e sociale,
indipendentemente dalle vicende biografiche che lo hanno visto spesso
relazionarsi polemicamente con il clima culturale a lui circostante. Ironia, incertezza
e malinconia definiscono un rapporto con il mondo e investono, da un lato, la
relazione conflittuale con Napoli e con la percezione della napoletanità.
La mai abbandonata parlata dialettale difficilmente indicherebbe un rifiuto delle cosiddette radici, ma come l’eros si esprime attraverso un continuo decentramento, Napoli non esiste come un’entità astorica. Va messa in questione, così come da guardare con sospetto sono i tentativi di restituirne un’immagine oleografica, funzionale più per la soddisfazione delle aspettative di chi la ammira esternamente, vedendo in essa specchiati i propri bisogni d’alterità. E allora appare quanto più significativo il discorso presentato da Martone, in cui Troisi si trova ad agire come punta di diamante di un’intera nuova generazione di musicisti, artisti, e attivisti che, probabilmente, non avevano e non hanno alcun problema a valorizzare la tradizione partenopea e la sua forza. Eppure, questa stessa ne hanno fatto un campo di battaglia, coscienti che queste forme vanno riprese, riconsiderate, sfidate (anche fallendo) in modo da permettere ad esse di continuare a esistere in relazione col mondo circostante (non è forse questa la porosità partenopea di cui parlavano Walter Benjamin e Asja Lācis?).
La politica non
può che essere comune perché sono le relazioni a fare in modo che le nostre
singolarità si esprimano e trovino, sempre andando a tentoni, il loro spazio
nel mondo.
Politica e vita,
inoltre, sono un unicum non
tanto perché sia necessario interrogarsi ininterrottamente sugli aspetti etici
e sociali di ogni piccola scelta e faccenda individuale. Il personale è
politico in Troisi poiché pensare collettivamente e organizzarsi non significa
concentrarsi esclusivamente sulla creazione di qualche nuova struttura e
istituzione, forse più consona ad affrontare le sfide del presente. Politica è
appunto l’arte della vita in sé stessa e occuparsene significa cercare di
ripensarla, senza che, come in amore, assicurazioni di sorta ci vengano fornite
precedentemente, nè soluzioni finali (espressione in sé funesta) siano le
uniche a dover guidare il nostro agire collettivo. Da questo spirito di ricerca
mai sopito viene anche un’incrollabile coscienza antiautoritaria. La politica
non può che essere comune perché, ancora una volta, sono le relazioni a fare in
modo che le nostre singolarità si esprimano e trovino, sempre andando a
tentoni, il loro spazio nel mondo. Proprio per questo vediamo come il cinema,
la poesia e la politica abbiano come forza condivisa anche quella di rispondere
dell’afasia, di permettere alle persone di formare degli affetti comuni. Essere
presi dall’appocundria per Troisi (epigono contemporaneo del Leopardi de Il Giovane Favoloso), quindi, è
l’opposto di un sentirsi sconfitto e uno struggersi nelle proprie fragilità.
Significa essere investiti da una profonda inquietudine, dal senso di
anticipazione che accompagna la possibilità di affrontare un’esistenza degna
senza riserve guidata dall’aspirazione di essere all’altezza dei suoi mutamenti
e maree. Forse non è un caso che Laggiù
qualcuno mi ama si chiuda su Troisi che contempla la luna, punto di
riferimento per tutta la malinconica e la romantica. Ammirando la dolce
compagna delle notti insonni, Troisi ama e ricorda che, nel cinema, come nella
vita, non si è mai soli.