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Uno contro Tutti

 

Una conversazione con Luca Buoncristiano e Federico Primosig, curatori della poderosa raccolta di interviste a Carmelo Bene.

tratto da “Il Tascabile” del 11.7.23

Graziano Graziani è tra i conduttori di Fahrenheit (Rai Radio 3), ha realizzato documentari radiofonici e televisivi (Rai 5), scrive per minima & moralia e il Tascabile e ha collaborato con diverse testate (Carta, Lo Straniero, Frigidaire, I Quaderni del Teatro di Roma). Si occupa principalmente di teatro e letteratura. Ha scritto vari libri, tra cui due inventari letterari per Quodlibet – l'Atlante delle micronazioni e il Catalogo delle religioni nuovissime – e il romanzo Taccuino delle piccole occupazioni per Tunué.

 

All’inizio delle sue Opere, Carmelo Bene scrive ironicamente e laconicamente: “Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”, subito di seguito a un incipit affidato al suo celebre aforisma: “Il talento fa ciò che vuole, il genio ciò che può”. E non c’è dubbio che proprio lui, il taciturno ragazzino di Campi Salentina, poi teatrante fuori dagli schemi più volte caduto e più volte risorto, sperimentatore delle cantine teatrali e di un cinema portato oltre i suoi limiti d’arte popolare e colta, oltre la gabbia del racconto, dissacratore e raffinato pensatore, autore di celebri provocazioni a cui detestava essere associato – si veda il discusso episodio della pipì sul critico teatrale –, attore totale, macchina attoriale, artefice e non attore, dicitore sublime e civile di un Dante lenitivo e salvifico dall’alto della Torre degli Asinelli a un anno dalla strage della stazione di Bologna, sedicente reazionario che incarna la rivoluzione teatrale, riempitore di teatri, urticante fustigatore delle retoriche affacciatosi dagli schermi della tivù nazionalpopolare del Costanzo Show, in definitiva uno dei più importanti artisti del secondo Novecento italiano; non c’è dubbio, si diceva, che proprio lui abbia incarnato come pochissimi altri la maschera del genio. E non c’è dubbio che il genio che incarnava fosse anche una sorta di dissacrazione del genio stesso, o meglio, della sua aura, come se l’unico gesto di intelligenza rispetto alle piccinerie di un’Italia borghese, addormentata oppure rivoluzionaria solo a parole, familista e amorale, potesse essere lo sberleffo, il sabotaggio sprezzante e beffardo di ogni quieta e acquietante retorica. È un lavoro continuo, esercitato sul proprio corpo, sulla propria voce, nella ricerca artistica ma anche nella presa di parola pubblica, quando Bene si traveste da Bene – l’eccentrico, il dissacratore – senza per questo mascherare alcunché.
Le ‘Interviste’ possono essere lette alla stregua di dialoghi sull’origine di quell’universo, ovviamente non in senso analitico, ma per digressione, esplosione, ragionamento rizomatico, connessione orizzontale e allo stesso tempo profondissima.
È questa sua presa sul reale, che è allo stesso tempo fuga dalle pastoie del reale, a rendere Bene, per qualcuno, un filosofo prima ancora che autore; ma un filosofo votato all’agire, al farsi del teatro, e che allo stesso tempo vede il fare come una scocciatura a cui la vita ci costringe, aspirando piuttosto dall’inorganico, dall’essere “il niente che è”. È, in definitiva, questa sua inclassificabilità e la capacità di scardinare attraverso i suoi non-discorsi ogni retorica – artistica, politica, sociale, religiosa, del quieto vivere – a fare sì che, ancora oggi, come devoti, il modo dell’arte e della cultura italiana sia ricco di “carmelitani”, di devoti alla figura di un artista che sembra fonte di ispirazione inesauribile, pur (o proprio) nella sua assoluta inimitabilità.
L’anno scorso, in occasione del ventennale della morte di Carmelo Bene, sono stati diversi i racconti e le riflessioni pubblicati attorno alla figura dell’artista, che hanno aggiunto preziose testimonianze e riflessioni a cavallo tra il documento e il racconto. Tra queste vanno certamente ricordati l’Oratorio Carmelo Bene di Jean-Paul Manganaro (Il Saggiatore) e Nota Bene di Piergiorgio Giacché (Kurumuny), entrambi sodali e profondi conoscitore dell’opera di Bene e della sua parabola artistica e umana (libri che fanno seguito al racconto della compagna Luisa Viglietti, Cominciò che era finita, uscito nel 2020 per le Edizioni dell’Asino con una prefazione di Goffredo Fofi). Ma oggi il popolo di appassionati, studiosi, amici e nuovi adepti a cui si faceva prima riferimento ha a disposizione, o nuovamente a disposizione, anche un poderoso apparato di parole dello stesso Carmelo Bene. A partire dalle celebri Opere, un libro quasi mitico pubblicato trent’anni fa da Bompiani e venduto nella sua edizione originale a peso d’oro nei siti di libri usati, che torna disponibile grazie a una nuova edizione per i tipi de La Nave di Teseo; per arrivare a una monumentale raccolta di interviste, per la prima volta raccolte in volume da Luca Buoncristiano e Federico Primosig con il titolo Si può solo dire nulla, per le edizioni de Il Saggiatore. Parliamo di quasi tremila pagine – 1.100 le Opere, 1.700 le interviste – che offrono un percorso vertiginoso nella scrittura di Bene, nel suo non-discorso che si dipana, sempre diverso ma in fondo sempre connesso, di romanzo in testo, di intervista in intervista.
Nelle conversazioni coi giornalisti Carmelo Bene attuava un sabotaggio del discorso che era esso stesso il  discorso, o il non-discorso, che egli dava in pasto alla chiacchiera pubblica dei giornali.
Il volume delle Opere raccoglie lavori celebri come il Lorenzaccio e Nostra signora dei Turchi, il primo romanzo divenuto film, fino alla sfrontata autobiografia “immaginaria e reale” Sono apparso alla Madonna, passando per i grandi innamoramenti e corpo a corpo intellettuali intrattenuti con la grande letteratura piò o meno teatrale, dal Manfred a Sade, da Pinocchio a Otello e Amleto. E tornare oggi alla scrittura di Bene non è solo un esercizio di riscoperta, ma anche la verifica di come il respiro vertiginoso del suo scrivere e del suo fare teatro, che sembra così lontano da quello odierno, nascesse – come scrive lui stesso nell’Autografia di un ritratto – dallo stesso esercizio di una “ricerca impossibile”, esercizio ferreo e pungente ma pur sempre scanzonato, che si preclude la “possibilità del trovare”. Cercare, trovare, perdere, riscrivere, annullare, sì, ma cosa? “Il Dio-io, la patria, il governo, la tolleranza intollerante di Stato, la famiglia, la paternità, la prole, il popolo, la Storia, la politica, la fratellanza, prossimo, l’Europa, la costituzione, l’anagrafe, il civismo, l’ontologia, la didattica, il progresso, la dialettica, il sindacato, il problema dei lavoratori, l’umanesimo, l’opinionismo, l’uguaglianza, la rivoluzione, la giustizia e l’ingiustizia, la responsabilità sociale, l’attualismo, la cronaca, l’informazione, la libertà (soprattutto di stampa), la democrazia, la scuola universitaria dell’obbligo, l’ottimismo, il buonsenso comune, il condominio, il pubblico, il privato, la solidarietà, l’altruismo, la questione razziale, il culto dei morti (seppellire i vivi), la beneficienza, la carità, il dilemma ebraico, la volontà, la fede, la speranza, l’utopia, l’ideologia, la volgarità dell’immagine, la metafisica, il rispetto del lavoro, il contemporaneo, il verbo, il senso, l’espressione, il prescritto orale, le parole, il pensiero, la memoria, la disciplina-interdisciplinare, il virtuosismo, l’indisciplina cieca del contrario di tutto questo”. Insomma, ogni forma di retorica italiana.
Se le Opere sono un universo-mondo, le Interviste possono essere lette alla stregua di dialoghi sull’origine di quell’universo, ovviamente non in senso analitico, ma per digressione, esplosione, ragionamento rizomatico, connessione orizzontale e allo stesso tempo profondissima. Nelle conversazioni coi giornalisti Carmelo Bene attuava un sabotaggio del discorso che era esso stesso il  discorso, o il non-discorso, che egli dava in pasto alla chiacchiera pubblica dei giornali. Adotta registri diversi a seconda che il suo interlocutore sia un critico votato all’arte del teatro, un giornalista di costume, un intellettuale prestato ai mass media. E in questa poliedricità ne esce un quadro irriducibile, impossibile da sintetizzare, che però e pervaso da una sua coerenza interna che in quasi quarant’anni di interviste sembra conservarsi a suo modo immutata, come il centro di questo universo in espansione e contrazione. Ne abbiamo parlato con i due curatori, Luca Buoncristiano e Federico Primosig, che suggeriscono di leggere questo volume poderoso come un romanzo, e non è un consiglio spropositato. Perché, ad essere spropositata, è la figura e l’opera dello stesso Carmelo Bene. 

Graziano Graziani: Mettere assieme le tante interviste che hanno provato a descrivere l’indescrivibile, il pensiero vulcanico di Carmelo Bene, deve essere stata una grande fatica, Luca Buoncristiano.

Luca Bunocristiano: Sì, è un’impresa impossibile sintetizzare Carmelo Bene. Carmelo Bene rappresenta un discorso che non avrà mai fine. Questa impresa nasce dalla mia esperienza nell’archivio di Carmelo Bene dopo la sua morte. Quando ho curato la catalogazione del lascito artistico mi sono imbattuto nella rassegna stampa, dalla quale sono partito per realizzare il PANTA Carmelo Bene per Bompiani, una prima raccolta di interviste, e ad adesso questo lavoro pubblicato da Il Saggiatore. Un progetto mastodontico nel quale era facile perdersi, ma che ha avuto un’accelerazione nel 2022, a vent’anni dalla morte di Bene, perché ci sembrava il momento giusto per offrire ai lettori un lavoro oggettivamente vasto e complesso.
Il volume illustra il percorso artistico di Bene nell’arco di quarant’anni. Un momento storico preciso, dunque, per un discorso che, tuttavia, non ha né inizio né fine. Perché Carmelo è una costante, non cambia mai nel tempo, già dalle prime interviste cavalca gli stessi temi di cui parlerà decenni più tardi. Questa mancanza di inizio e di fine è il segnale della sua grandezza, perché forse se il suo discorso fosse “finito” non sarebbe allora così straordinario come di fatto è.

 

GG: È stato anche un grande sabotatore di qualunque “fissità” che potesse circoscrivere ciò che produceva artisticamente. Questo sabotaggio si evince anche dalle risposte che dà agli intervistatori. Ci sono nel libro intervista di tenore diverso: alcune rilasciate a grandi nomi della critica teatrale, da Franco Quadri a Renato Palazzi a Rodolfo Di Giammarco; in altre conversa con nomi della tv popolare, come Red Ronnie. Come cambia il suo approccio?

Federico Primosig: Il libro è un gioco caleidoscopico dentro il mondo del giornalismo italiano. Sia il tenore delle interviste che i nomi degli intervistatori cambia a secondo del contesto e del periodo storico. Se si trova di fronte Maurizio Grande o Franco Quadri, e cioè grandi studiosi, allora sono esercizi di approfondimento. Cito, tra tutte, quella di oltre sessanta pagine di Gigi Livio e Ruggero Bianchi, che è importantissimo che sia stata ristampata. Quando si trova di fronte il giornalista di colore, che sforna articoli su articoli su vari temi, Bene opera invece una sorta di hackeraggio della forma intervista. A quel punto le interviste diventano un campo di battaglia, per lui, da dove lanciare le proprie invettive. Quelle pop, come quella di Red Ronnie, gli permetteva di cercare entrature particolari al suo discorso: in quella conversazione, ad esempio, si lancia in considerazioni molto interessanti sul jazz che altrove erano state solo accennate.

 

GG: Anna Bandettini, Maria Grazia Gregori, Franco Cordelli, Antonio Audino; sono solo alcuni dei nomi che compaiono in questa galleria ricchissima di conversazioni con i critici. In un’intervista a Maurizio Mosca, del 1980, in cui l’intervistatore chiedeva a Bene se fosse o meno interessato alle critiche sui giornali, lui risponde: “È morto Flaiano, spento il primo Arbasino, da allora nessun critico ha capito che sono il più grande attore europeo. Quindi non leggo più recensioni”. È un esempio perfetto di come Bene fosse in grado di lanciare le sue bordate ma, al tempo stesso, disinnescare il meccanismo dell’intervista. C’è da dire però che lui non si è mai sottratto a questo meccanismo, piuttosto lo trasformava in un momento performativo, in un’estensione del campo d’azione dell’artista.

LB: Carmelo Bene ha favorito e alimentato la propria autonarrazione appropriandosi del mezzo dell’intervista. In queste conversazioni Bene crea una nuova modalità espressiva. Si tratta di giochi fatti di contraddizioni, menzogne, affermazioni categoriche e aforismi, che gli servono a preservare la propria integrità e verità d’artista. Bene non si fa mai “fregare” dal giornalista, anche se la stampa, quella più superficiale, cercherà costantemente di “tirarlo giù”, di svalutarne la portata, insistendo ripetutamente sul tema dell’enfant terrible. L’intervista, allora, diviene anche un territorio di lotta contro il potere dell’informazione, contro la violenza di una certa critica.

 

GG: Leggendo le interviste emerge certamente un gusto per la provocazione, ma anche un gioco di ribaltamento dei significati, che parte proprio dalle categorie usate dagli intervistatori a volte del tutto a sproposito. Bene contrasta questa superficialità portando fino alle estreme conseguenze, con profondo rigore di ragionamento, i termini e le questioni poste con superficialità dai giornalisti. Il risultato sono risposte sì iperboliche, ma che finiscono per spostare il discorso su questioni urgenti, per il mondo della cultura e dell’arte in Italia.

FP: Rigore è la parola giusta. Questo libro è, innanzitutto, una grandissima lezione di rigore. Per quarant’anni è andato avanti con questo gioco, ma giocando con la più grande serietà. I cortocircuiti linguistici a cui fai riferimento sono anche il sintomo dello scontro tra il linguaggio giornalistico, il discorso quotidiano, e il discorso di Carmelo Bene che faceva della contraddizione un fatto fondativo – non nel senso dell’incoerenza, ma nell’ottica di quell’unione degli opposti di cui si nutre il ragionamento dell’arte, ma se vogliamo anche della scienza e della riflessione filosofica. Se pensiamo alla rivoluzione scientifica compiuta dalla fisica nel secolo scorso, essa non poteva essere compiuta se non facendo saltare in aria tutte le categorie basilari date per assodate dagli schemi teorici allora in vigore. E Einstein è uno dei numi tutelari di Carmelo Bene, proprio per la capacità di comprendere che A e il contrario di A possono coesistere anche nel mondo fisico. E quindi, per quanto riguarda la riflessione del teatro e dell’arte, la logica aristotelica, assieme alla linearità del racconto, salta in aria in modo definitivo. La lezione della fisica, ma anche del modernismo in letteratura, di Joyce, è una lezione che non si deve dimenticare per Carmelo Bene, è un punto di non ritorno.

 

GG: È un libro poderoso, pur essendo leggibile e godibile. Che lavoro avete fatto per mettere insieme tutto questo materiale? La memoria di Carmelo Bene è complicata, sparsa, non sempre ordinata.

LB: Sì, è vero, il libro è godibile e il mio invito è di leggerlo dall’inizio alla fine come fosse un romanzo, o una docufiction su Carmelo Bene. Chi dovesse scegliere questa strada potrebbe facilmente rinvenire un filo che si snoda, una vera e propria narrazione che Carmelo costruisce intervista dopo intervista. Rispetto ai materiali, che sono tanti, l’impresa è stata titanica. Si parte dall’archivio di Bene, sul quale ho lavorato, e a cui si è aggiunto il mio archivio personale, costruito nel tempo. Quello che è sorprendente, tuttavia, è l’enorme lavoro che abbiamo fatto nel corso dell’ultimo anno, una forsennata ricerca nelle biblioteche, ma anche online, su quanto è uscito nelle riviste, nei giornali. Tutto questo per dare un ordine, mettere un punto fermo almeno sul passaggio di Carmelo Bene nel panorama della stampa italiana. Altrettanto difficile è stato ottenere tutte le liberatorie; qualche sciagurato giornalista non ha voluto concedercela, ad esempio. Mi spiace per lui, perché ha perso l’occasione di essere inserito in un volume che è già una specie di classico.

FP: Tuttavia per me è stato molto emozionante contattare alcuni degli intervistatori e degli aventi diritto, perché conversando con loro capivi quanto fosse viva l’emozione di sapere che quelle parole sarebbero finite in un contenitore più grande, che dava risalto e respiro a quell’esperienza raccontando Carmelo Bene attraverso le conversazioni. C’erano tantissimi ricordi legati a quelle interviste, anche da parte degli eredi degli intervistatori che magari avevano assistito un po’ per caso a quell’incontro o ne avevano ascoltato il racconto. Tutte le persone che hanno incontrato Carmelo Bene sono rimaste in qualche modo segnate. Ricordo di aver parlato con una persona che non ha nulla a che vedere con il mondo del teatro, che quando ha appreso che stavo lavorando a questo volume si è sentita di dirmi che da ragazzina aveva assistito a uno spettacolo di Carmelo Bene, che non aveva capito assolutamente nulla di quanto aveva visto, ma che nonostante ciò era una delle esperienze artistiche più importanti della sua vita, che si portava viva dentro l’anima.

 

GG: Il lascito di Carmelo Bene in termini di archivio e di materiali ha avuto una storia complessa, a volte travagliata, come ricordavamo. Sembra quasi che questo materiale voglia sfuggire a una classificazione sistematica, un po’ come lo stesso Carmelo Bene cercava di fuggire, in quanto artista, a una qualsivoglia catalogazione.

LB: Il tema del lascito di Carmelo è complesso. È vero che voleva dimenticare sé stesso, come disse più volte, ma non voleva essere dimenticato. Il testamento con cui dava l’avvio alla fondazione era un testamento pubblico, dove lui, in un certo senso, si rendeva erede di sé stesso. Nella sua abitazione romana i suoi beni artistici erano conservati, c’era tutto quello che lui aveva fatto dagli anni Sessanta fino alla sua morte. Era evidente in lui la consapevolezza del valore del materiale d’archivio come residuo di un percorso, quello dell’attore, altrimenti intestimoniabile. Questo volume aggiunge un tassello in questo senso, è un’altra traccia residuale della sua opera e si presenta come un archivio portatile.

 

GG: Questo archivio portatile ci restituisce una figura poliedrica di artista, un pensatore acuto e fuori schema e un grande e urticante sabotatore delle etichette del discorso pubblico. In quale di questi aspetti risiede il nucleo centrale di questo ritratto, ammesso che si possa affermare che ne esiste uno soltanto?

FP: Carmelo Bene è tra i grandi personaggi del Novecento, anzi, tra i grandissimi. E anche quando le sue provocazioni – qui tra queste interviste ce ne sono molte – possono aver suscitato irritazione da parte di alcuni, queste ci restituiscono sempre la sua grandezza di pensiero e la sua capacità di ribaltare le questioni. C’è da dire che se noi avessimo, per assurdo, potuto vedere e ascoltare Mozart o Caravaggio al Maurizio Costanzo Show chissà cosa ci saremmo ritrovati di fronte, forse qualcosa di non dissimile da quello che fece Carmelo in quell’occasione. Leggere queste interviste può rivelare molto di Carmelo Bene, sia a chi lo conosce già, sia a chi non lo conosce, che può prendere queste conversazioni come un primo sguardo sull’universo “carmelitano” ma anche come un viatico per poi andare direttamente alla fonte delle sue opere. La grandezza del cinema di Carmelo Bene o del suo teatro sono un fatto totale, a prescindere dal fatto che lui durante le occasioni pubbliche facesse consapevolmente sfoggio di una certa sbruffoneria. Se noi prendiamo un disco di Bene, con le sue registrazioni dei poeti russi, dell’Adelchi di Manzoni, e lo ascoltiamo come se stessimo ascoltando una sinfonia, tutto il resto passa in secondo piano. Per me è il più grande artista italiano del Novecento, senza mezzi termini.

LC: Ci sono sempre molti piani per leggere Carmelo Bene. Anche la provocazione ha un suo preciso significato e valore, e va letta con uno sguardo prospettico. Soprattutto agli inizi della sua carriera, ad esempio, Carmelo Bene mostra un atteggiamento dirompente anche come strumento per emergere e imporsi nel panorama teatrale di quegli anni, e in seguito nel discorso culturale nazionale – lui che veniva dal sud del sud dalla Puglia. Se guardiamo bene la sua parabola artistica ci rendiamo conto che sì, è vero, ha avuto la stima di molti intellettuali in Italia come in Francia, ma è altrettanto vero che il suo è un percorso solitario, e non poteva essere altrimenti. Nel far fuori il teatro, Bene fa fuori tutto quello che lo circonda e fa fuori anche sé stesso.
Ecco quindi che, frequentando il “teatro della crisi”, provocava “crisi” anche nello spettatore. Qualsiasi fosse il contesto, sul palco o fuori. Me lo ricordo perfettamente, nelle occasioni pubbliche a cui ho avuto modo di assistere, che questa era una dinamica che si veniva a creare ogni volta. Ricordo ad esempio un seminario al Teatro Argentina di Roma, dove i primi a litigare furono i relatori stessi, mentre Carmelo Bene se ne stava in silenzio ad ascoltare, abbastanza divertito. Così come ricordo applausi e fischi dopo una replica del Macbeth Horror Suite. Come disse il Presidente della Repubblica Ciampi, in occasione della sua scomparsa, Carmelo Bene ha “scosso le coscienze”. Può sembrare una frase fatta e invece coglie appieno l’esperienza di quello che è uno dei più grandi artisti italiani del secolo scorso: quando vengono scosse le coscienze, la gente rimane senza appiglio, si sente persa. E a volte, quando la gente si sente persa, senza punti fermi, può capitare che finisca per arrabbiarsi.