tratto da : “La Voce.info” del 01.07.2021 a firma di Corrado Giustiniani
Riportiamo un articolo tratto dal “La Voce.info” del 1 luglio 2021 su un argomento molto importante, la riforma del diritto di cittadinanza. Da più parti si sottolinea che, i prossimi anni, saranno caratterizzati da una ripresa sul piano economico. Non basta. Occorre accompagnare tale probabile ripresa ad una stagione di riforme che rendano l’Italia un paese più attento alla tutela dei diritti (in particolare dei più svantaggiati). Un’Italia con più diritti, mentre agli italiani spetta una diversa presa di coscienza dei propri doveri. (NdR)
Sono più di 900 mila i figli di immigrati che
aspettano la riforma della cittadinanza, dopo gli equivoci creati dallo slogan
“ius soli”. I margini per un compromesso in Parlamento ci sono. Sarebbe invece
un errore aspettare la prossima legislatura.
Diciotto anni di residenza ininterrotta, per i figli
nati in Italia da genitori immigrati, prima di poter fare domanda per diventare
cittadini. Appare sempre di più una ferita della nostra democrazia la norma
della legge 91 del 1992, che venne approvata all’unanimità dal nostro
Parlamento.
Ne fanno le spese i figli degli immigrati nati in
Italia che, secondo le stime accreditate dal Centro di ricerche Idos, erano 800
mila due anni fa e oscillano ora tra i 900 mila e il milione. Nell’anno
scolastico 2018-2019 i giovani stranieri iscritti, dalle materne alle
superiori, erano 858 mila, dei quali 553 mila nati nel nostro paese. Favorirne
l’integrazione attraverso norme meno impietose sulla cittadinanza, sembra
un’esigenza improcrastinabile. Il 14 marzo, nel discorso all’assemblea
nazionale che lo avrebbe proclamato segretario del Pd, Enrico Letta ha promesso
il suo impegno. Poco più di due mesi dopo, il 26 maggio, lo ha ribadito a un
convegno delle Acli.
Se si crede davvero nel diritto di cittadinanza di
questi bambini e di questi ragazzi, occorre prendere atto anche degli errori
commessi e porvi rimedio con una triplice correzione di rotta.
Primo, è necessario cambiare la narrazione, scandita
finora in modo martellante da un termine, “ius soli”, che ha generato molti
equivoci. Secondo, vanno cercate con ostinazione le alleanze politiche
necessarie a condurre l’iniziativa in porto. Terzo, e di conseguenza, è
opportuno essere disposti ad apportare alcune modifiche al proprio progetto
originario.
Gli equivoci generati dal
termine “ius soli”:
La riforma, approvata nel 2015 dalla Camera e
inabissatasi due anni dopo al Senato, si basava su due pilastri: concedere la
cittadinanza ai bimbi nati in Italia da genitori non Ue, dei quali almeno uno
possedesse un permesso di lungo soggiorno (che può essere richiesto solo dopo
cinque anni di residenza regolare) e prevedere il cosiddetto “ius culturae”, e
cioè la possibilità che un minore non nato in Italia conquisti da solo la
cittadinanza attraverso un ciclo scolastico. Ma l’uso del termine “ius soli” si
è rivelato un autentico boomerang per il successo della proposta. Ha infatti
spalancato le porte a una facile e di fatto vincente propaganda degli
anti-riforma, quella secondo cui chi nasce da noi diventerebbe automaticamente
italiano, nella versione di “ius soli assoluto”, all’americana. Trasformandoci,
con gli arrivi dall’Africa, “nella più grande sala parto del Mediterraneo”.
Senza contare che lo “ius soli” in Italia c’è già: quello “temperatissimo” dei
18 anni di residenza ininterrotti dalla nascita, che con la riforma sarebbe
diventato “temperato”. Distinzioni per iniziati, che non arrivano alla gente,
ai social e nemmeno ai titoli dei giornali e delle tv.
L’esempio tedesco:
La Germania, da sempre considerata una delle
roccaforti dello “ius sanguinis”, ha approvato nel 2000 una legge che assicura
la cittadinanza ai bimbi nati da genitori non Ue, che risiedano sul suolo tedesco
da almeno otto anni e siano dotati di permesso di lungo soggiorno. Se i
promotori della riforma italiana ne fossero stati consapevoli, sarebbe stato
molto più efficace parlare, invece che di “ius soli”, di “cittadinanza alla
tedesca”.
Nel corso di un seminario organizzato il 30 ottobre
2019 alla Camera dalla Fondazione De Benedetti, e guidato da Tito Boeri, Helmut
Reiner, dell’università di Monaco aveva elencato i vantaggi prodotti dalla
legge in vent’anni di applicazione: le frequenze all’asilo dei bimbi “ex
stranieri” sono aumentate del 40 per cento, si è ridotta l’età delle iscrizioni
alla scuola primaria e sono salite del 40 per cento le iscrizioni dei figli
degli immigrati alle superiori, che poi aprono le porte all’università.
La “cittadinanza alla tedesca” non tiene conto però
dell’altro pilastro della riforma abortita: il fatto che un minore non nato in
Italia si possa guadagnare la naturalizzazione con i cicli scolastici. E allora
uno slogan condivisibile per rilanciare il progetto potrebbe essere “l’equa
cittadinanza” di bambini e minori.
Avviare appena possibile un
confronto politico:
Un progetto di tale rilievo non si conduce da soli. È
il partito di Enrico Letta, che ha risollevato il tema, a dover prendere
l’iniziativa. Sarebbe necessario consultare per primi gli alleati 5 Stelle, ma
il divorzio appena sancito fra Beppe Grillo e Giuseppe Conte sembra imporre una
forzata attesa. Ai leader del Movimento va ricordato che il 14 giugno del 2013
avevano presentato alla Camera una proposta di legge ben più radicale della
riforma fallita: bastava un genitore residente da tre anni nel nostro paese per
rendere cittadino il bimbo nato in Italia. Non un’iniziativa isolata di un
singolo deputato, ma un documento di 95 firme, con dentro tutto il Gotha del
Movimento: da Luigi Di Maio a Roberto Fico, da Laura Castelli a Fabiana Dadone,
da Alessandro Di Battista a Danilo Toninelli. Se il tema della cittadinanza per
bambini e ragazzi era per i 5 Stelle ben maturo otto anni fa, come non potrebbe
esserlo oggi, quando le seconde generazioni sono ben più consistenti?
Bisognerebbe poi coinvolgere i partiti di centro e di destra moderata,
ricordando ad esempio che Gianfranco Fini da presidente della Camera, nel 2009,
appoggiò la proposta bipartisan di riforma presentata da Andrea Sarubbi del Pd
e Fabio Granata del Pdl.
Concordare alcune modifiche:
Una trattativa sulla cittadinanza di bambini e minori,
naturalmente, comporta la disponibilità ad accettare modifiche al testo di
legge originario.
Partendo dal pilastro della riforma, che un bimbo nato
in Italia sia italiano se proveniente da una famiglia integrata (di cui il
permesso permanente è la prova), si potrebbe ad esempio introdurre il principio
che la cittadinanza maturi alla nascita, ma sia conferita ufficialmente con una
cerimonia a scuola, in quinta elementare.
Sono certamente opportune alcune modifiche alla parte
“ius culturae”, che non ha precedenti nella normativa degli altri paesi
d’Europa. Nel progetto abortito si ammetteva ad esempio la possibilità di diventare
italiani anche attraverso un corso triennale di formazione professionale, che
invece serve a imparare un mestiere e, da solo, non può far diventare
cittadini. È poi forse troppo elevata l’età limite di ingresso in Italia (12
anni) ammessa per poter fruire di questa opportunità. Ancora, è necessario che
il ciclo scolastico a cui il minore sia iscritto venga in ogni caso superato (e
non soltanto se si tratta di scuola elementare): la semplice frequenza non può
bastare.
Al limite del compromesso, si potrebbe addirittura
discutere di rendere necessario per i minori non nati in Italia il superamento
non di uno, ma di due cicli scolastici per poter ottenere la cittadinanza
italiana: elementari e medie inferiori o medie inferiori e superiori.
I margini di una razionale trattativa, almeno sulla carta, sembrano esserci. La speranza è che il confronto possa essere avviato nei tempi più brevi possibili. Se si rinvia a una nuova legislatura, il cui quadro politico non promette di essere più favorevole, e si continua a sbandierare lo slogan harakiri dello “ius soli”, la riforma non passerà mai.