Lo
psichiatra e militante rivoluzionario Frantz Fanon è stato una figura chiave
della lotta contro il colonialismo europeo. Il suo pensiero innovativo sul
razzismo e sul suo rapporto con l’oppressione di classe è ancora estremamente
attuale.
Le proteste
degli scorsi mesi contro il razzismo e la brutalità poliziesca hanno dato un
nuovo impulso alle riflessioni sulla natura del capitalismo, sui suoi rapporti
col razzismo e sulla costruzione di alternative a entrambi. Pochi pensatori
hanno trattato in modo più diretto questi temi di Frantz Fanon, il filosofo,
psichiatra e militante rivoluzionario martinicano, generalmente considerato uno
dei pensatori più importanti del ventesimo secolo sui temi della razza e del
razzismo.
Fanon conobbe
direttamente il dominio coloniale francese, sia nei Caraibi che in Nord Africa,
e traspose quell’esperienza nel suo lavoro intellettuale. Giocò un ruolo attivo
nel movimento rivoluzionario algerino lottando per l’indipendenza negli anni
Cinquanta, ma avvertì gli stati indipendenti africani che, senza una
rivoluzione sociale, avrebbero corso il pericolo di rimpiazzare semplicemente
il sistema coloniale con la borghesia nazionale.
Alcuni lavori chiave di Fanon sono disponibili da diverso tempo. Tuttavia, la recente pubblicazione di oltre seicento pagine di studi di Fanon su letteratura, psichiatria e politica, finora inediti in lingua inglese, offre un’ottimo pretesto per rileggere il suo pensiero sotto una nuova luce.
Denaturalizzare il razzismo.
Nato nel 1925,
Fanon crebbe nelle Piccole Antille, nella Martinica del dominio francese. Era
abituato a pensare a sé stesso – come molti altri all’epoca – soprattutto come
a un francese, non come a un «nero». Una percezione che iniziò a cambiare
quando si arruolò come soldato nel movimento della France libre durante la
Seconda guerra mondiale. Da quell’esperienza dolorosa portò a casa il razzismo
della «civiltà» francese.
Ritornato in
Francia nei tardi anni Quaranta, Fanon si immerse nella letteratura della Négritude,
un movimento di rivendicazione dei Neri francofoni. Contemporaneamente assorbì
gli ultimi sviluppi delle correnti culturali europee, come la fenomenologia,
l’esistenzialismo, la psicoanalisi e il marxismo. Tutto questo portò alla
pubblicazione del suo primo libro, nel 1952, quando Fanon aveva appena ventisei
anni: Pelle nera,
maschere bianche.
La grande
intuizione di Fanon in Pelle nera, maschere bianche fu di
analizzare il razzismo in termini «sociogenetici», negandone qualsiasi origine
naturale. Il colore della pelle potrà anche essere determinato biologicamente,
ma il modo in cui lo vediamo e interpretiamo è condizionato da forze sociali
che sono al di là del nostro controllo. Questo fenomeno è così pervasivo che la
razza e il razzismo sembrano fenomeni «naturali», transtorici. Per Fanon, per
sgomberare il campo da una simile mistificazione il mero esercizio critico non
può bastare: essendo profondamente radicata nelle realtà sociali oggettive è su
quel piano che dev’essere combattuta.
Negli ultimi
decenni, la «costruzione sociale della razza» è diventato un tale cliché da
far passare spesso inosservate le implicazioni radicali della scoperta
teoretica di Fanon. Se la razza è un costrutto sociale, ne consegue che a
essere responsabili della sua nascita e della sua prosecuzione sono specifiche
relazioni sociali. E quali potrebbero essere queste relazioni? Fanon insiste
nel dire che sono economiche:
Una
disalienazione completa dell’uomo nero implica la consapevolezza brutale delle
realtà sociali ed economiche […] il problema nero non riguarda solo la vita dei
Neri tra i bianchi, ma riguarda lo sfruttamento dei Neri, il loro essere
ridotti in schiavitù e disprezzati dalla società coloniale e capitalistica, che
si dà il caso sia bianca.
Tuttavia, questo
non significa che la razza sia secondaria rispetto alla classe, o che la lotta
contro il razzismo sia subordinata alla lotta contro il capitalismo. Un
fenomeno non è definito esclusivamente dalle sue origini. Il razzismo ha avuto
un suo sviluppo indipendente e ha definito gli orizzonti mentali degli
individui anche dopo l’uscita di scena di alcuni dei suoi imperativi economici.
Fanon insiste dunque che «l’uomo nero deve lottare su due piani», oggettivo e soggettivo.
Qualsiasi «liberazione unilaterale è fallata, e il peggior errore sarebbe
pensare che la loro mutua dipendenza sia automatica».
Sfortunatamente,
questo «errore» caratterizzava le forme dominanti del marxismo dell’epoca di
Fanon: vedevano il razzismo come (nei casi migliori) un aspetto secondario,
mentre fallivano nel compito di produrre una teoria marxista credibile della
razzializzazione. Per questa ragione, malgrado la sua ferma opposizione al
capitalismo, Fanon non si associò mai a nessuna delle correnti marxiste della
sua epoca. Per riprendere le parole con cui Sylvia Wynter riassunse la nota
posizione di Fanon: «Una soluzione doveva essere supportata sia sul piano
oggettivo socioeconomico, sia a livello dell’esperienza soggettiva, di
coscienza e, dunque, d’identità».
Dall’oggettivo al soggettivo.
Per Fanon,
l’affermazione positiva della propria identità è un momento cruciale nello
sviluppo dell’autocoscienza. La liberazione dei Neri e delle Nere come soggetti
dipendeva dal recupero del senso della propria individualità e dignità che gli
era stato strappato dallo «sguardo bianco». Provare orgoglio per gli attributi
razziali denigrati dalla società in persone di colore era un passo fondamentale
per sfidare la naturalizzazione delle relazioni sociali alla base del razzismo.
Fanon ha
sviluppato questa prospettiva grazie a un confronto critico con la Fenomenologia
dello Spirito di Hegel. Fanon sosteneva che il riconoscimento
reciproco era impossibile in una società definita dallo sguardo razziale, in cui
le persone di colore erano viste come cose: «Ho scoperto di essere un oggetto
in mezzo ad altri oggetti». Questo è stato un problema centrale per Fanon: il
razzismo non si limita semplicemente a deprivare le sue vittime delle loro
risorse economiche e del loro status sociale. Le deumanizza e le
depersonalizza, lasciando i Neri ad abitare in una «zona di non-essere, una
regione straordinariamente sterile e arida, una rampa essenzialmente spoglia,
da cui può sorgere un nuovo inizio». Tutto ciò ha prodotto un complesso di
inferiorità, la sensazione di valere meno come esseri umani. Quelli che lui
chiama «i dannati della terra» possono trascendere questo stato solo
riconoscendo con forza la propria umanità, sulla base dell’affermazione
positiva delle loro caratteristiche razziali o nazionali.
Riconoscimento è un termine spesso frainteso dell’opera di Fanon. Nel pensiero
politico moderno la frase «politiche del riconoscimento» rimanda alla mutua
accettazione degli «eguali diritti» dei cittadini. Tutte le relazioni
contrattuali, sia in politica che in economia, includono il riconoscimento dei
diritti della controparte. Ma Fanon non parlava di riconoscimento in questi
termini. Fanon non nutriva alcuna speranza di poter superare il razzismo con
dichiarazioni di uguaglianza formale poiché, per lui, le persone di colore non
erano percepite come integralmente umane ed erano dunque escluse dal contratto
sociale. Criticava quanti cercavano il riconoscimento della società già
esistente, in quello che secondo lui era uno sforzo per «diventare bianchi»,
rimanendo comunque dentro un complesso di inferiorità. Fanon puntava a un tipo
di riconoscimento molto più profondo, capace di ammettere la piena umanità, in
termini di desideri e dignità, dei marginalizzati e degli oppressi. Raggiungere
questo obiettivo «implica ristrutturare il mondo», come disse una volta.
L’approccio di
Fanon offre dunque un’alternativa al modo in cui di solito nella sinistra
odierna si tende a discutere di razza, classe e identità. Si opponeva a quella
sorta di rivoluzionesimo astratto che concepisce il
proletariato come garante della liberazione e al contempo sminuisce
l’importanza delle lotte contro il razzismo. Rigettava anche quel genere di
politiche identitarie che mirano unicamente all’espressione di sé e a una
soddisfazione integrata nella struttura delle relazioni capitalistiche
esistenti, una posizione particolarmente evidente nei suoi lavori come
psichiatra.
Socioterapia.
Fanon iniziò a
studiare psichiatria a Lione nei tardi anni Quaranta, e presentò il testo
di Pelle nera, maschere bianche come tesi di dottorato nel
1951. Il suo supervisor universitario rifiutò il lavoro per via del suo
contenuto non convenzionale. Fanon rispose ripiegando su uno studio tecnico
sulle implicazioni psichiatriche della atassia di Friedreich – una forma di
degenerazione neurologica della colonna vertebrale. La tesi, pubblicata in
inglese solo in anni recenti, è l’ultimo posto dove ci si aspetterebbe di
trovare un’analisi delle relazioni sociali. Eppure l’intuizione di Fanon sul
carattere sociogenico del razzismo traspare anche in questo scritto. Fanon
insisteva sul fatto che le malattie mentali, anche se potevano avere origine
organica, erano «sempre psichiche nella loro patologia». Rifiutava di ridurre
persino le malattie neurologiche ai loro aspetti biologici. Era interessato al
crollo psicologico subito dal singolo individuo, guidato in quest’approccio da
un implacabile umanesimo:
Il
[singolo] essere umano smette di essere un fenomeno nel momento in cui lui o
lei incontra il volto di un altro. Perché l’altro rivela me a me stesso. E la
psicoanalisi, proponendosi di reintegrare l’individuo folle all’interno del
gruppo, si stabilisce come la scienza della collettività par excellence.
Questo significa che l’essere umano sano è un essere sociale: o altrimenti, che
la misura della sanità umana, da un punto di vista psicologico, sarà data
dall’integrazione più o meno perfetta nel socius.
Questa
prospettiva avrebbe guidato Fanon nei successivi otto anni, passati a lavorare
in una serie di cliniche psichiatriche, prima in Francia, poi in Algeria e in
Tunisia, dove praticò – inizialmente sotto la tutela di François Toquelles – la
«socioterapia». Significava liberare i pazienti da condizioni prossime alla
prigione e provare a integrarli nella società. Fanon e i suoi colleghi
utilizzavano tecniche come quella della terapia occupazionale, mettendo i
pazienti a lavoro su giornali e opere teatrali, e permettendo loro di
aggregarsi liberamente gli uni agli altri nell’istituto. Nel corso del suo
lavoro Fanon somministrava psicofarmaci, e impiegò persino l’elettroshock. Ma
lo fece provando contemporaneamente a creare un ambiente umanista in grado di trattare
il paziente come persona.
L’apertura alle
possibilità umane era la pietra angolare di questo approccio, sia nel lavoro di
Fanon come psichiatra, sia nel suo successivo ruolo di attivista
rivoluzionario. La sua tesi citava un passo di Jacques Lacan:
C’è una
discordanza essenziale all’interno della realtà umana. Ma anche se dovessero
prevalere condizioni organiche dell’intossicazione, il consenso della libertà
sarebbe comunque necessario.
Se la
«discordanza essenziale» definisce la nostra natura, non può essere superata;
secondo questa prospettiva l’alienazione sarebbe parte integrante
dell’esistenza umana. Fanon rispose con una domanda: «Non sarebbe meglio
lasciare aperta la discussione sui limiti stessi della libertà – sarebbe a
dire, della responsabilità umana?». Le pagine iniziali di Pelle nera,
maschere bianche contengono una dichiarazione vivida: «L’uomo è
un sì che si propaga dalle armonie del cosmo». Fanon concepiva
la libertà come «un mondo di mutui riconoscimenti», insistendo che il desiderio
di «toccare l’altro, sentire l’altro, scoprire l’altro» era una parte
essenziale dell’essere umano.
La rivoluzione algerina.
Dopo aver
praticato la psichiatria per diversi anni in Francia, Fanon si trasferì in
Algeria nel 1953, dove venne assunto all’ospedale Blida-Joinville, fuori
Algeri. Non fece questa scelta per ragioni politiche, poiché all’epoca sapeva
poco dell’Algeria e non aveva avuto quasi nessun contatto con i movimenti di
liberazione africani. Scoprì rapidamente una società manichea, dove i coloni
francesi, circa il 10 percento della popolazione algerina, vivevano in un altro
mondo rispetto alle masse arabe e cabillie. Queste ultime erano soggette a una
discriminazione assai più brutale di qualunque cosa avesse sperimentato nelle
Antille. Quando la rivoluzione algerina scoppiò nel novembre del 1954, guidata
dal neonato Fronte di Liberazione Nazionale (Fln), Fanon sposò gli obiettivi
del movimento e la sua chiamata alla lotta armata.
Fanon ora univa
il suo lavoro psichiatrico al coinvolgimento in un movimento rivoluzionario.
Nascose i militanti dell’Fln nel suo ospedale e curò le vittime di stupro e
tortura. Divenne inoltre sempre più attivo nei dibattiti politici interni
all’Fln. Tuttavia, i legami tra la psichiatria di Fanon e la sua visione politica
erano molto più profondi. Come ha osservato Robert Young, Fanon dipinse
un’analogia tra le società sotto il dominio coloniale e i pazienti psichiatrici
che necessitavano di cure:
La
rivoluzione fu lo shock necessario che permise la ricostruzione della società
colonizzata […] Le politiche di libertà di Fanon furono attentamente modellate
su, e derivate da, la sua pratica terapeutica.
Fanon condusse
una serie di studi dettagliati sulla società e la cultura algerine negli anni
Cinquanta, discutendo il ruolo giocato dalla religione nelle nazioni musulmane,
il senso radicalmente differente del tempo che separava i nordafricani dagli
europei, e il modo in cui la famiglia e le comunità di clan in Algeria
definivano loro stesse sempre più spesso in relazione a una vasta comunità
nazionale. Guardò soprattutto al frequente rifiuto dei colonizzati di
confessare i crimini, anche di fronte a palesi prove di colpevolezza:
Possiamo
approcciare questo sistema ontologico così sfuggente chiedendoci se i musulmani
indigeni pensano davvero a loro stessi come parte in causa di accordi
contrattuali con il gruppo sociale che oggi esercita il proprio potere su di
loro. Si sentono legati al contratto sociale? Che significato avrebbero per
loro il crimine, il processo e la sentenza se così non fosse?
Come sottolinea
Fanon, la confessione dipende da un riconoscimento precedente, una cosa che nel
contesto coloniale mancava: «Non può esserci reintegrazione se non c’è mai
stata integrazione». Dal momento che il contratto sociale escludeva la
popolazione coloniale, questa sentiva di non avere l’obbligo di obbedire alle
norme giuridiche o legali. Il rifiuto della confessione, concludeva Fanon, era
un atto di rivolta. Il fallimento del sistema nel riconoscere l’umanità delle
persone colonizzate le costringeva a spingere per un sovvertimento completo
delle istituzioni esistenti, non verso semplici riforme. Secondo Fanon il
soggetto colonizzato – dagli arabi ai cabilli in Algeria fino ai Neri
dell’Africa sub sahariana o agli afroamericani negli Stati uniti – potrebbe
dunque essere la forza d’avanguardia nelle lotte per la trasformazione sociale.
Distendere il marxismo.
Fanon opponeva
la prassi rivoluzionaria dei colonizzati alla passività e ai tradimenti della
sinistra europea. I partiti francesi socialisti e comunisti supportarono la
guerra dell’imperialismo francese contro la rivoluzione algerina, che costò più
di un milione di morti. Il premier socialista, Guy Mollet, presiedette al
violento giro di vite in Algeria, mentre i deputati comunisti nel parlamento
francese votarono a favore dei crediti di guerra, malgrado il loro impegno
formale nell’anti-colonialismo leninista. Con l’importante eccezione di figure
come quella di Jean-Paul Sartre, ci fu poco supporto attivo per la rivoluzione
algerina persino nelle sezioni più radicali della sinistra europea. Questo
portò Fanon a diventare sempre più critico verso il paradigma che definiva gran
parte del pensiero occidentale.
Queste
considerazioni furono centrali nell’ultimo e più famoso libro di Fanon, I dannati
della terra. Fanon cominciò a scrivere il libro dopo aver saputo
di avere una leucemia incurabile, e morì poco dopo la pubblicazione, nel 1961.
Gli studiosi spesso pensano che I dannati della terra volti
completamente le spalle all’Europa. Al contrario, Fanon nel libro ripensava
criticamente le filosofie europee, incluso il marxismo.
Fanon insisteva
sul fatto che l’analisi marxista «dovrebbe sempre essere leggermente distesa ogni
volta che si affronta il problema coloniale». Nelle analisi di Marx
sull’accumulazione capitalistica in Europa, lo sviluppo del capitalismo aveva
strappato i contadini al «lavoro naturale» della terra e li aveva trasformati
in proletariato urbano, che a sua volta si era trasformato in una forza di
massa, compatta e rivoluzionaria, attraverso la concentrazione e
centralizzazione di capitale. Fanon notò che questo processo non era stato
ripetuto in Africa. La distruzione delle forme di proprietà comunitaria
tradizionali del continente non avevano portato alla creazione di un
proletariato di massa e radicalizzato, dal momento che i colonialisti non
avevano industrializzato l’Africa, ma al contrario l’avevano sottosviluppata
attraverso l’estrazione brutale di forza lavoro e risorse naturali. La gran
parte della popolazione era rimasta contadina, mentre la classe lavoratrice
delle città e dei villaggi era debole e poco numerosa. Per questi motivi, Fanon
suggerì che la principale forza motrice della rivoluzione sarebbe stata
composta da contadini e dal mondo del sottoproletariato, e non dalla nascente
classe operaia africana.
Alcuni scrittori
hanno criticato Fanon per aver esagerato il ruolo dei contadini e aver
trascurato i momenti in cui il lavoro organizzato giocò un ruolo importante
nelle lotte per l’indipendenza africana negli anni Cinquanta e Sessanta. Anche
se in queste critiche c’è del vero, vale la pena notare che Fanon concordava
con la visione di Marx secondo cui una rivoluzione sociale può avere successo
solo se è il prodotto di un «movimento consapevole e indipendente dell’immensa
maggioranza». Fanon, come Marx prima di lui, rigettava l’idea che una
rivoluzione di successo potesse essere ottenuta da una classe operaia
minoritaria guidata – in pratica o almeno in teoria – da un partito
d’avanguardia «disciplinato e centralizzato», e provava a immaginare per le
rivoluzioni africane una via che fosse lontana dagli errori del passato.
Un nuovo umanesimo.
Il contributo
più importante dei Dannati della terra risiede nel suo
avvertimento profetico sul destino che avrebbe aspettato le rivoluzioni
africane se la lotta per l’indipendenza non si fosse sviluppata in una
rivoluzione sociale, per stabilire ciò che Fanon chiamava «un nuovo umanesimo».
Fanon era un sostenitore appassionato della liberazione nazionale attraverso la
lotta armata, ma non come fine a sé stessa.
Attraverso la
forma di una lotta nazionale, sosteneva, la rivoluzione algerina aveva evitato
l’esclusività razziale, riunendo insieme arabi, cabilli e neri africani – come
pure quei bianchi algerini disposti a cedere i propri privilegi. Tuttavia,
Fanon predisse che queste lotte sarebbero cadute preda delle macchinazioni
della borghesia nazionale se non si fossero rapidamente evolute, dopo
l’indipendenza, in una fase di trasformazione sociale.
Con queste
parole Fanon delineava un’idea di sviluppo opposta tanto al capitalismo
occidentale quanto al gerarchico modello di industrializzazione sovietico.
Voleva che le masse rivoluzionarie creassero una società decentralizzata in cui
avrebbero avuto un controllo reale, e non soltanto nominale, sui processi
politici ed economici. Per questa ragione, si oppose alle forme di
organizzazione adottate virtualmente in tutte le rivoluzioni africane (inclusa
quella algerina): «Il partito unico è la forma moderna di dittatura della
borghesia – senza la sua maschera, il make-up e gli scrupoli, cinico sotto ogni
aspetto».
Fanon metteva a
confronto le ricche nazioni capitaliste, nelle quali «una moltitudine di
predicatori, consiglieri, ‘mistificatori’ si frappongono tra gli sfruttati e le
autorità» per impedire uno scontro frontale, con gli stati coloniali in cui
«l’intervento diretto della borghesia» avrebbe «assicurato che i colonizzati
rimanessero sotto stretto controllo, contenuti dai calci dei fucili».
L’esperienza degli ultimi anni dimostra che il divario tra il mondo colonizzato
di cui scriveva Fanon e le nazioni come gli Stati uniti si è via via
assottigliato. Le mediazioni tra le autorità e gli sfruttati negli Stati uniti
si stanno rapidamente dissolvendo, mentre lo spirito razzista che ha pervaso
ogni momento della storia di questo paese si sta manifestando a un livello che
non si era mai visto dal capovolgimento della Black Reconstruction [dal
titolo del libro di W.E.B. Du Bois sul contributo di Neri e Nere all’epoca
della Ricostruzione americana post-guerra civile, Ndt].
Alla luce del
fallimento e dell’incompletezza delle rivoluzioni del secolo scorso, rimane
centrale l’idea di Fanon che ribaltare con successo le strutture economiche e
politiche richiede anche la trasformazione delle più intime relazioni umane, a
cominciare dal modo in cui ci percepiamo l’un l’altro in una società
razzializzata. Per dirla con le parole di Raya Dunayevskaya: «Non sono i mezzi
di produzione a creare un’umanità nuova, è l’umanità nuova a creare nuovi mezzi
di produzione».
*Peter Hudis è
professore di filosofia all’Oakton Community College e autore del libro Frantz
Fanon: Philosopher of the Barricades. Questo articolo è uscito
su JacobinMag.
La traduzione è di Gaia Benzi.