Pubblichiamo di seguito un pezzo di qualche mese fa. Ad oggi, luglio 2023, la situazione non è cambiata e non si vedono all’orizzonte progetti di cambiamento delle stato delle cose: quando si passerà dall’emergenza alla gestione ordinaria? (NdR)
di Annalisa Camilli
Come funziona
l’accoglienza degli immigrati in Italia e cosa cambierà con lo stato di
emergenza e la nuova riforma voluta dal governo Meloni
Il sole si riflette
sulle coperte termiche color oro che avvolgono le spalle dei migranti appena
attraccati con una motovedetta della guardia costiera italiana al molo Favarolo
di Lampedusa. Gli ultimi trentaquattro sono arrivati nel pomeriggio del 24
aprile e sono stati messi in fila sulla banchina, che è di nuovo affollata. I
soccorsi però non si sono fermati a causa di tre nuovi naufragi al largo
dell’isola siciliana: i dispersi sono almeno venti, secondo l’Alto
commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Il giorno prima
erano arrivate sull’isola 819 persone a bordo di ventuno imbarcazioni.
“Sappiamo che con il
prossimo sbarco della guardia costiera arriverà anche un cadavere, quello di
una donna annegata durante i soccorsi”, afferma Giovanni D’Ambrosio, operatore
di Mediterranean Hope, sempre presente al molo. Dopo Pasqua, con la prima
finestra di bel tempo, sono ricominciati gli arrivi: “Scappano dalla Tunisia:
due ragazzi subsahariani ci hanno raccontato di essere stati picchiati dalla
polizia tunisina, senza motivo. Solo perché erano neri. E questi racconti sono
sempre più frequenti”.
L’11 aprile il governo
italiano ha annunciato
lo “stato di emergenza su tutto il territorio nazionale per fronteggiare
l’eccezionale incremento dei flussi di persone migranti”. Ma sulla piccola isola siciliana – più vicina alla Tunisia che all’Italia
– le procedure allo sbarco non sembrano essere cambiate. “Come operatori
all’accoglienza ci siamo solo noi di Mediterranean Hope e i volontari del Forum
Lampedusa solidale”, afferma D’Ambrosio. “Le persone non sono trattate come dei
sopravvissuti, ma come dei criminali. Il tutto è gestito come un’operazione di
polizia”, racconta. Le forze dell’ordine coordinano le procedure di sbarco, poi
ci sono otto agenti di Frontex e gli operatori dell’Unhcr. “Ma a volte le
persone sono trasferite dal molo all’hotspot dopo molte ore e spesso non gli
viene data nemmeno una bottiglietta d’acqua”, racconta D’Ambrosio.
L’emendamento al
cosiddetto decreto Cutro, presentato dalla maggioranza dopo il naufragio
sulla spiaggia di Steccato di Cutro e approvato dal
senato il 20 aprile, prevede che l’hotspot di Lampedusa sia gestito dalla Croce
rossa e che sia aggiunto un traghetto per trasferire i profughi dall’isola alla
terraferma. Ma gli operatori continuano a denunciare i trasferimenti fatti con
il contagocce e le condizioni inumane dell’hotspot di Contrada Imbriacola, un
centro di identificazione in cui i migranti sono rinchiusi e da cui non possono
uscire.
“Ci sono più di 1.200
persone in una struttura che potrebbe contenerne al massimo 350. I minori non
accompagnati sono 280 e i bambini sono una trentina”, racconta Giovanna Di
Benedetto, portavoce di Save the children. I bagni sono inservibili, c’è
promiscuità, mancano i servizi igienico-sanitari di base. È un centro che
dovrebbe ospitare i richiedenti asilo per pochi giorni e invece finisce per
ospitarli per diverse settimane, anche mesi.
Niente posti per i
minori
Dal 2018 – in seguito
all’approvazione dei cosiddetti decreti
Salvini – nel sistema di accoglienza italiano si sono
ridotti drasticamente i posti per i minori e così, ora che sono aumentati di
nuovo gli arrivi, i minorenni aspettano per giorni in strutture fatiscenti e
inadeguate come l’hotspot di Lampedusa oppure come la tensostruttura che è
stata costruita sul molo di Roccella Ionica, in Calabria.
“Così si è creata una
situazione paradossale: i più vulnerabili rimangono nelle strutture, dove non
sono garantiti i loro diritti fondamentali, perché non si trovano i posti per
loro nella prima accoglienza. Alcuni minori sono stati trattenuti nell’hotspot
per più di un mese”, continua l’operatrice che ha un’esperienza decennale negli
sbarchi sulle coste italiane.
Nel suo rapporto Nascosti in
piena vista - Frontiera sud, pubblicato nel febbraio del 2023,
Save the children denuncia proprio la mancanza strutturale di posti per i
minorenni, nonostante gli arrivi siano stabili da tempo. “Negli ultimi dieci
anni sono arrivati in Italia via mare da soli 103.842 minori stranieri non
accompagnati – prevalentemente adolescenti e preadolescenti, ma non di rado
anche bambini – con una media di 15mila presenze annue”, specifica il rapporto.
Nonostante i minori non
accompagnati siano quindi una presenza regolare nel paese, non sono mai nati i
centri governativi di prima accoglienza previsti dalla legge. “E anche i Centri
di accoglienza straordinaria (Cas), che dovrebbero rappresentare la soluzione
estrema, contavano al 31 dicembre 2021 soltanto 519 posti”. Infine, sempre secondo
il rapporto, dal 2018 al 2021 i minorenni non sono stati distribuiti
sull’intero territorio nazionale, ma sono rimasti concentrati nelle strutture
del sud, in particolare in Sicilia e in Calabria.
Le cose non sono andate
meglio per gli adulti. Il 30 marzo la Corte europea per i diritti umani ha condannato
l’Italia per il trattamento riservato a quattro ragazzi
tunisini nell’ottobre del 2017 proprio nell’hotspot di Lampedusa. I quattro,
che erano sopravvissuti a un naufragio, erano stati trasferiti nel centro di
prima accoglienza dell’isola e lì erano stati trattenuti per dieci giorni,
senza ricevere informazioni sulla possibilità di chiedere asilo, in condizioni
di estremo disagio, dormendo all’aperto, senza bagni funzionanti.
Successivamente sono stati costretti a firmare la notifica di un provvedimento
di respingimento di cui non hanno ricevuto copia, poi sono stati trasferiti all’aeroporto
di Palermo, ammanettati con le fascette di velcro, e rimpatriati in Tunisia il
giorno stesso.
La corte ha stabilito
che i quattro tunisini sono stati sottoposti a trattamenti inumani e
degradanti, a detenzione arbitraria oltre il limite stabilito dalla legge e
infine sono stati vittima di respingimento collettivo, vietato dalle norme
internazionali, perché non sono stati valutati caso per caso. Per questo Roma
li dovrà risarcire.
Per l’ex capo di
gabinetto del ministero dell’interno ed ex capo dipartimento per le libertà
civili e l’immigrazione Mario Morcone, Lampedusa ha bisogno di un’attenzione
speciale. In particolare ci dovrebbe sempre essere un delegato del ministero
dell’interno a controllare che siano forniti i servizi primari ai migranti
appena arrivati: “C’è sicuramente un capitolato di spesa che prevede che siano
distribuiti beni di prima necessità come abiti puliti e scarpe, ma bisognerebbe
che qualcuno controllasse. La prefettura di Agrigento, che è competente per
l’hotspot, è lontana”.
“Oggi non sappiamo
quali siano le condizioni nei centri di accoglienza, perché non ci sono
ispezioni da parte delle autorità”, conferma Fabrizio Coresi, esperto di Action
Aid, tra gli autori del rapporto Centri
d’Italia, che offre un monitoraggio costante della situazione.
“Dalle nostre rilevazioni, che risalgono però al 2019, ci risulta che tredici
prefetture non hanno mai fatto ispezioni. Tra queste c’è la prefettura di
Agrigento”.
Sappiamo però che per
la struttura di Lampedusa la spesa pubblica pro capite al giorno è passata dai
circa 36 euro del 2018 ai 17,91 del 2021, una diminuzione di quasi il cinquanta
per cento. “Un taglio alla spesa importante in linea con quanto avvenuto a
livello nazionale dopo i decreti sicurezza del 2018”, spiega Coresi.
Da allora c’è stata una
riduzione generalizzata dei posti nell’accoglienza in Italia: nel sistema
gestito direttamente dal ministero dell’interno si è passati dai 125mila posti
a disposizione nel 2018 a cinquantamila posti nel 2021. Mentre sono quattromila
i posti persi dal 2018 al 2020 nel sistema gestito dai comuni (l’ex Sprar, oggi
Sai). Posti che sono stati poi lentamente recuperati a partire dal 2020 con il
cosiddetto decreto Lamorgese, che ha modificato i decreti Salvini. “In
particolare c’è stato un crollo importante dei posti disponibili nei centri di
piccole dimensioni”, continua Coresi.
“Con la diminuzione
degli arrivi si sarebbe dovuto andare a potenziare i centri di accoglienza più
piccoli, più a misura umana. Invece le cose sono andate esattamente in
direzione opposta”, conclude il ricercatore, secondo cui l’approccio nella
gestione dell’accoglienza è ideologico e per questo inefficace: la situazione
precipita quando gli arrivi aumentano. “Inoltre c’è un’assoluta mancanza di
trasparenza rispetto a come sono gestiti i centri”, continua il ricercatore.
Secondo una relazione al
parlamento dell’agosto del 2018, quando era ministro
dell’interno Matteo Salvini, era preferibile incentivare la micro-accoglienza
diffusa. “Ma invece, tre mesi dopo, è stata varata una riforma (il primo
decreto sicurezza) che premiava i grandi centri gestiti dai prefetti, i Cas”.
Con il decreto del 2018
inoltre sono stati tagliati i fondi destinati all’accoglienza: “I centri sono
diventati dei semplici alloggi e hanno smesso di offrire corsi d’italiano o di
formazione, un’assistenza più completa oltre al vitto e all’alloggio”. La
conseguenza è che molte piccole associazioni non profit si sono tirate fuori
dal mercato, mentre sono rimaste le grandi aziende a scopo di lucro, che hanno
abbassato la qualità e la quantità dei servizi offerti.
Uno stato di emergenza
anomalo
Per giustificare la
dichiarazione di stato d’emergenza dell’11 aprile, l’esecutivo ha sostenuto che
i centri di prima accoglienza, e in particolare l’hotspot di Lampedusa, si
trovino in un gravissimo stato di sovraffollamento. Per questo ha annunciato di
voler costruire nuove strutture sia di prima accoglienza sia di detenzione e
rimpatrio.
Eppure, fa notare
Openpolis, a dieci giorni di distanza da quell’annuncio non è
stata attivata nessuna procedura ufficiale e nella Gazzetta ufficiale non è
stato pubblicato alcun documento. “Quando fu dichiarato lo stato di emergenza
in risposta alla crisi da covid-19, la delibera venne pubblicata in gazzetta
ufficiale il giorno successivo alla sua adozione in consiglio dei ministri”,
scrive Openpolis.
Il 16 aprile, inoltre,
è stato nominato un commissario, Valerio Valenti, per gestire la supposta
emergenza migranti: ma “anche dell’ordinanza con cui Valenti è stato nominato
commissario, per giorni non c’è traccia nei documenti pubblici”. Solo il 19
aprile è stata
pubblicata la notizia in Gazzetta ufficiale: “Da questo
documento è possibile avere finalmente alcune informazioni ufficiali su come
dovrebbero funzionare commissariamento e stato di emergenza. Altre informazioni
però restano ancora non disponibili”.
C’è inoltre
un’incongruenza sui limiti territoriali di applicazione dello stato di
emergenza: nel titolo dell’ordinanza di nomina di Valenti si dice che lo stato
di emergenza varrà solo per sedici regioni, perché Valle d’Aosta,
Emilia-Romagna, Toscana, Puglia e Campania si sono rifiutate di collaborare
attraverso i pareri espressi dai presidenti di queste regioni.
“Eppure tutte le fonti
ufficiali disponibili confermano che il consiglio dei ministri ha deliberato lo
stato di emergenza sull’intero territorio nazionale. Sembra dunque che ci
troviamo nella strana situazione in cui l’emergenza nazionale risulta attiva su
tutto il territorio, ma il commissario opera solo in alcune regioni”,
sottolinea Openpolis.
Lo stato di emergenza
permetterà di snellire le procedure per gli appalti e di andare in deroga sulle
norme. Ma in molti sostengono che la normativa già in vigore avrebbe comunque
consentito procedure in ogni caso più veloci.
Verso un modello
ungherese
Per lo storico Michele
Colucci, autore del libro Storia
dell’immigrazione straniera in Italia, lo stato di
emergenza è stato una misura “permanente” degli ultimi venticinque anni nella
gestione del fenomeno migratorio: “La prima volta fu adottato nel 1997 con gli
sbarchi degli albanesi in Puglia, poi nuovamente nel 2002. Fu rinnovato nel
2007. Nel febbraio del 2008 fu limitato alla Puglia, Sicilia e Calabria. Quindi
sempre nel 2008 l’ex ministro dell’interno Roberto Maroni lo estese di nuovo al
territorio nazionale, intrecciandolo con il pacchetto sicurezza. Infine nel
2011, il governo Berlusconi lo usò per gestire gli arrivi straordinari dal
Nordafrica, in seguito alle primavere arabe”.
È servito a mettere in
mano alle prefetture la costruzione dei centri e la loro gestione, liberando
tutte le gare di appalto dalle norme e dalle procedure: “Anche per questo a un
certo punto ha generato diversi scandali. È stato il motivo per cui sono state
aperte diverse inchieste. Le più famose sono Mafia capitale e quella sul Cara
di Mineo, in Sicilia”. Per questo dal 2011 si è tentato di rafforzare la
gestione ordinaria, con un ruolo centrale previsto per i comuni e le
amministrazioni locali.
Per Filippo Coresi di
Action aid tutta la materia dell’accoglienza è sempre stata gestita in Italia
con procedure straordinarie: “Lo stato di emergenza serve ad andare in deroga a
tutte le norme sugli appalti per costruire centri di accoglienza e centri di
detenzione. Questo è molto pericoloso e in passato ha portato a degli abusi”.
Il ricercatore spiega
che si sta andando verso un modello di detenzione diffusa di tutti i
richiedenti asilo – in centri chiusi o hotspot – come avviene di fatto già in
Grecia e in Ungheria. Secondo uno studio di Giuseppe Campesi dell’università di
Bari, l’Italia potrebbe arrivare a sottoporre a un regime di detenzione
amministrativa più di 72mila richiedenti asilo. “Un progetto allarmante, ma per
certi versi molto difficile da attuare dal punto di vista concreto”, conclude
Coresi.
“L’Italia sta andando verso il modello ungherese”, concorda Gianfranco Schiavone, presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) di Trieste. Secondo Schiavone, con la nuova norma non solo si tornerà indietro al 2018, ma si andrà verso un drastico peggioramento. “Non si tornerà soltanto ai Centri straordinari, cioè dei grandi centri con pochi servizi. L’attuale governo vuole una progressiva apertura di centri chiusi per il confinamento e la segregazione dei richiedenti asilo negli hotspot e nei Centri di permanenza per i rimpatri. Si va verso la detenzione diffusa di tutti i richiedenti asilo”.