Quale
trascurabile serie di eventi, di scelte, occasioni, desideri fa sì che uno
scrittore diventi uno scrittore? E cosa succede invece a chi, pur potendo o
volendo scrivere, rinuncia alla scrittura? Sono vite e visioni inconciliabili?
Oppure si toccano, si parlano? Quali influssi segreti si scambiano tra loro?
Il giovane
narratore dello Stadio di Wimbledon si mette sulle tracce del fantasma di Bobi
Bazlen, forza demiurgica e occulta dell’editoria italiana del secondo
dopoguerra: icona dello scrittore-che-non-scrisse-mai-un-libro e che preferì
intervenire nella vita degli altri, consulente editoriale e lettore totale che
conosceva “tutte le opere in tutte le lingue del mondo”, che scoprì Svevo, fece
tradurre Kafka e Musil, e inventò i “libri unici” di Adelphi. Bazlen non volle
mai scrivere, si dice. Oppure è vero il contrario, che non ci riuscì,
schiacciato dal peso delle proprie ambizioni? “Era uno che alzava sempre il
tiro? Uno che si toglieva la terra sotto i piedi, finché si è accorto di essere
andato troppo in là?”.
Un giovane si
mette sulle tracce del fantasma di Bobi Bazlen, forza demiurgica occulta dell’editoria
italiana del secondo dopoguerra, icona dello
scrittore-che-non-scrisse-mai-un-libro.
Bazlen è morto
da circa quindici anni quando il giovane parte per Trieste, e in seguito per
Londra, per parlare con le persone che lo hanno conosciuto, per cercare di
comprendere i motivi di un diniego tanto clamoroso e tanto in fretta
dimenticato. “Quello che a me interessa è un punto, in cui forse si intersecano
il saper essere e il saper scrivere. Chiunque scrive se l’immagina in un certo
modo. Con lui invece in quel punto c’è stata un’esclusione, una rinuncia, un
silenzio. Io vorrei capire perché”.
Ma il lettore
non si trova a leggere un’inchiesta, non c’è nulla di giornalistico, i nomi dei
protagonisti vengono a malapena citati, ed è probabile anzi che chi ignora le
vicende non ne ricaverà molte informazioni. Il libro inizia poi in maniera
anomala: un guasto a un treno innesca uno scambio di battute inaspettatamente
intenso tra il protagonista e uno sconosciuto, un militare che era seduto
accanto a lui sul vagone. I due scendendo dal treno in avaria iniziano a
parlare di questioni ferroviarie, di ingegneria edile e poi di come sono
costruiti i ponti, di “pianali prefabbricati”, “martinetti”, piloni e cavi di
acciaio. Il loro dialogo mostra una inaspettata dedizione condivisa e una
strana forma di affetto. Più avanti nel libro il lettore troverà resoconti del
funzionamento delle navi e delle carte nautiche esposti con lo stesso sguardo
tecnico, meticoloso eppure curiosamente amorevole, oltre a descrizioni dettagliate
di oggetti anche più ordinari, quelli che il giovane troverà nei salotti e
nelle cucine delle case che visiterà durante la sua ricerca nel passato di
Bazlen.
Lo stadio di
Wimbledon, appena ripubblicato da Einaudi, è il primo romanzo
(1983) di Daniele Del Giudice, morto lo scorso settembre dopo una lunga
malattia. È un libro, come tutti i suoi successivi, attraversato da una scelta
geometrica delle parole, una cura minuziosa dedicata soprattutto ad arnesi,
costruzioni, macchinari e mezzi di trasporto. Elementi che di solito la
letteratura per lo più rifiuta e che Del Giudice invece rivendica e riscatta:
nei libri che verranno dopo questo racconterà di aerei (a lungo), di internet e
acceleratori di particelle, e lo farà sempre con uno slancio sentimentale, teso
a raccontare l’uomo che vive accanto alla macchina. Come sottolinea Tiziano
Scarpa nella prefazione della raccolta dei
racconti di Del Giudice: gli oggetti e le tecnologie che
usiamo tutti i giorni plasmano le nostre vite, i nostri modi di essere e
pensare e quindi anche i sentimenti, le emozioni, e Del Giudice lo aveva capito
prima che smartphone, social, e recensioni degli utenti invadessero tutto.
Leggendo Lo
stadio di Wimbledon ci si accorge subito che sotto questa lingua
euclidea, tecnica e certosina, scorre una sostanza viva, dominata e sconvolta
da impercettibili movimenti dell’animo e dell’umore. Invece di trovare una
risposta all’enorme enigma esistenziale che è la biografia di Bazlen, il
giovane narratore finisce per perdersi nelle sue stesse paturnie (e inoltre è
vinto dalla narcolessia, ed è quasi sempre in viaggio, e così si addormenta
ovunque, soprattutto sui treni). È un giovane educato, estremamente composto,
garbato fino alla paralisi, inguaribilmente a disagio. Gli estranei lo
destabilizzano (“non dico nulla, ho un senso di resa totale”). Si costringe a
trovare il coraggio di intervistare amici, colleghi e muse di Bazlen, li
disturba nei bar, riesce a farsi invitare a casa loro, ma lo fa quasi sempre
controvoglia (“vorrei mantenere una certa inerzia, con piccole spinte
indispensabili e sufficienti”), ogni volta che incontra qualcuno sembra
pentirsene, non vuole guardare le foto in bianco e nero che gli vengono
mostrate, non vuole leggere vecchi libri con loro (“vorrei andarmene ma sono
preoccupato dalle formalità”), ogni tanto getta la spugna, fa finta di avere
altri impegni, poi di colpo, invece, quando riesce a non scappare e si convince
a rimanere piantato sulla poltrona, gli sembra di trovare un’epifania nelle
parole degli altri, e scopre di essere sulla buona strada nella sua angosciata
ricerca (“avrei bisogno di un tempo laterale, parallelo, che mi permettesse di
continuare a parlare e contemporaneamente di appartarmi con ciascuna delle cose
che ascolto”). Poco dopo cambia di nuovo idea, capisce invece di star
raccogliendo solo dettagli senza peso, tutt’al più qualche storiella che
riguarda un flirt o un’antipatia di Bazlen.
Ovviamente c’è
un gioco di specchi, anche se non è mai esplicito: il giovane narratore ha
paura di non scrivere, si confronta con la figura del non-scrittore per
eccellenza, ne è attratto e respinto, cerca di ricostruirne il pensiero ma poi
se ne allontana come fosse materia radioattiva, una sorgente a cui è meglio
esporsi con cautela, solo qualche minuto al giorno.
Il libro prende
il titolo da una scena apparentemente minore. In una delle poche pause dalle
sue interviste, il giovane entra nello stadio di Wimbledon fuori stagione, dove
visita velocemente il museo e il campo vuoto, senza partite in corso.
Sotto la lingua
euclidea, tecnica e certosina di Del Giudice scorre una sostanza viva, dominata
e sconvolta da impercettibili movimenti dell’animo e dell’umore.
Bisogna
ripercorrere alla moviola quelle poche pagine per comprenderle appieno: nello
stadio ci sono altri turisti, in particolare tre ragazzi che si affacciano
dalla tribuna d’onore, il palco reale. Dopo un po’ camminano ai bordi del campo
“fino a una scaletta in discesa. Spariscono dal margine dell’occhio”. Così il
giovane si ritrova di nuovo solo, precipita nei suoi pensieri. Torna a Bazlen
naturalmente: “Tra poco avrò l’ultima occasione, e dovrei trovare qualcosa che
mi portasse di colpo al perché lui non ha scritto”. È stufo. Si dice: “Vorrei
solo vedere, e sentire”. Fantastica di poter superare tutti gli scontri irrisolvibili
tra la vita e il racconto che ogni scrittore deve affrontare. Si ripete: se
solo si potesse immortalare la realtà in qualche altro modo, se si potesse
rinunciare alla parola. Pensa: se potessi piuttosto “fotografare una visione di
insieme, o un particolare che conta solo per me”. In quel momento si accorge
che su una panca, al di là dei gradini, i tre ragazzi hanno dimenticato una
macchina fotografica. Il giovane narratore fantastica per un po’ di rubarla, di
iniziare a scattare foto dello stadio vuoto dove sta vivendo questa sua
epifania inafferrabile. Non trova il coraggio di alzarsi, però. “Non faccio
nulla; aspetto che le cose accadano, come sempre”. E così di nuovo tutto cambia
in pochi secondi: un altro visitatore, un suo doppio più veloce e determinato,
raccoglie la macchina abbandonata e senza fretta si allontana dalle gradinate,
lasciando il protagonista alla sua stasi.
Eppure forse è proprio questo il momento in cui il giovane narratore diventa giovane scrittore. Capisce che per lui non c’è via di fuga dai “pensieri confusi”, dal “vortice di acume, o di rigore, o di ironia per compensare, o di angoscia paralizzante, o non so”. In questo impasto indolente l’indagine su Bazlen finisce per non avere più domande né risposte, e il tormento del giovane, girando infinitamente a vuoto su se stesso, trova la sua via per farsi letteratura.