Valerio Massimo è uno storico romano,
vissuto a cavallo tra il I secolo a.C. e il primo secolo d. C. Forse di origini
modeste, amico di Sesto Pompeo, autore di un’opera dal titolo puntualmente
storpiato dagli studenti (Factorum et dictorum memorabilium libri IX), dal
carattere erudito e divulgativo. Al tempo dell’imperatore Tiberio era
discretamente noto, e proponeva ai suoi lettori esempi ed aneddoti
moraleggianti, fatti e comportamenti di personaggi famosi del passato,
attingendo a fonti diverse e fornendo materiale a retori ed autori successivi.
Paragonando le virtù romane con quelle straniere, propendeva – ovviamente - per
la superiorità dei romani. Senza addentrarci nella sterminata materia
dell’opera, ci siamo soffermati su un elenco interessante (VIII 3) di donne che
“difesero se stesse o altre persone in presenza dei magistrati”. Dai tempi del
re Numa alle donne non era concesso di parlare in pubblico, e tantomeno
perorare una causa, perché ciò sarebbe risultato dannoso per le istituzioni
pubbliche (Plutarco), ma nonostante tale divieto alcune donne si erano
avventurate nel foro. Valerio Massimo ritiene di non dover passare sotto
silenzio (ne…tacendum est) quelle donne che ritennero di dover prendere la
parola nei tribunali. La prima è tale Mesia Sentinate, che incriminata si
difese alla presenza del pretore di turno e di una gran folla di popolo
riuscendo a farsi assolvere con verdetto quasi unanime. Quale sia la colpa di
cui era stata accusata non lo sappiamo, perché lo storico non ce lo racconta, ma
riscuote la sua ammirazione “poiché nascondeva sotto le vesti un animo virile”,
per cui fu soprannominata Androgine. La seconda è Caia Afrania, moglie del
senatore Licinio Buccone, e benchè non le mancassero gli avvocati, si difese
personalmente davanti al pretore “perché era l’impudenza fatta persona”. Stancò
i tribunali con le sue urla, divenne la personificazione dell’intrigo
femminile, al punto che “alle donne di cattivi costumi si suole appioppare
l’appellativo calunnioso di Caia Afrania”. Dopo Androgine, donna dall’identità
ambigua, ecco un mostro di cui è meglio dire ai posteri quando scomparve che
quando nacque. Infine Ortensia. Lei era la figlia di un grande oratore, Quinto
Ortensio Ortalo, rivale di Cicerone, che l’aveva educata e formata culturalmente
trasmettendole l’amore per la retorica. Ortensia si mosse a nome delle donne
che erano state individuate come abbienti per un provvedimento fiscale che imponeva
la partecipazione alle spese militari e prevedeva sanzioni nei confronti di
omissioni o false dichiarazioni. Le donne, private degli uomini a causa delle
guerre civili, non potevano più essere rappresentate di fronte alla legge.
Ortensia era stata scelta come avvocato e rappresentante delle donne, dal
momento che nessun uomo aveva potuto o voluto assumere il loro patrocinio. “Perché
mai – chiese Ortensia – le donne dovrebbero pagare le tasse visto che sono
escluse dalla magistratura, dai pubblici uffici, dal comando e dalla ‘res
publica’?” Ortensia vinse la causa nel senso che il provvedimento venne
limitato alle donne più ricche e fu introdotta una tassa sui grandi patrimoni.
I romani però ribadirono che le donne non potevano perorare cause né ricoprire
incarichi pubblici. Di Ortensia Valerio Massimo dice che discusse la causa “con
coraggio e felicemente”, riproducendo l’eloquenza di suo padre.
“Parve allora rivivere nella figlia
Quinto Ortensio ed ispirarne le parole: del quale se i posteri avessero voluto
imitare l’efficacia, la grande eredità dell’eloquenza di Ortensio non sarebbe
finita con la sola orazione di una donna”. Come a dire che il merito
dell’orazione di Ortensia era di suo padre, e il demerito di tutti gli uomini
che da lui non avevano imparato nulla, lasciando – che spreco – tanta bella
eloquenza appannaggio di una donna. Caro Valerio Massimo, non sarebbe stato più
semplice riconoscere alle donne la capacità di parlare, perorare, difendere un
proprio diritto? E la sua opera, che continuò a circolare nell’antichità e nel
Medioevo, fu utilizzata come manuale ad uso dei retori e degli insegnanti delle
scuole, anche nella forma di compendi. Le donne romane non potevano disporre di
se stesse, dei propri beni, e Ortensia aveva mostrato a quelle donne la
necessità di prendere coscienza della propria condizione a cominciare
dall’indipendenza economica. Aveva dimostrato l’importanza di non rimanere in
silenzio, come dopo poco anche Paolo di Tarso avrebbe sostenuto “traghettando
nel neonato cristianesimo una legge già esistente” (M. Pellegrini): “Mulier
taceat in Ecclesia”.
Maria Colaizzo