“Sensibile” è un
aggettivo complicato e ambivalente. Il suo significato è instabile: a seconda
del contesto può pendere verso la lodevole capacità di percepire a fondo sé e
l’altro, rimanendo accoglienti verso il mondo, oppure verso una velata accusa
di debolezza, di incapacità di reagire, resistere ed essere resilienti verso le
difficoltà della vita. Ma c’è una terza via. La suggerisce Svenja Flasspöhler
nel saggio Sensibili. La suscettibilità moderna e i limiti
dell’accettabile, appena pubblicato da nottetempo nella traduzione di
Tommaso Isabella: la sensibilità può rimanere in bilico e indicare qualcosa
come la “forza della vulnerabilità”. Un’alleanza fragile quella tra questi due
termini, che tuttavia rappresenta un importante strumento per affrontare il
futuro.
È molto
probabile che ognuno e ognuna di noi sia stato accusato di essere troppo
sensibile. Sensibile alle critiche, al tocco di qualcun altro, alle sue parole,
ai suoi apprezzamenti. Oppure, al contrario, insensibile al dolore dell’altro,
al suo disagio o ai suoi bisogni. Sembra di assistere, oggi, a una specie di
“rivoluzione della sensibilità”: molto di quello che era scontato in passato
ora non lo è più e per questo viene problematizzato. Sono attivi, almeno in
Occidente, processi (giuridici o ancora solo popolari) di rivendicazione del
diritto a non veder violata la sensibilità individuale o di un gruppo oppresso.
È richiesto a più voci un cambiamento radicale che attraversi diagonalmente
tutto il campo sociale dai costumi, alle leggi, alle stesse “formalità” che
guidano in maniera non sempre dichiarata il comportamento collettivo. Per
contro, è necessario riflettere anche sui rischi di sottomettere le norme di
comportamento alla sensibilità individuale perché, anche se quest’ultima sembra
il minimo comun denominatore della garanzia di libertà, la nostra interiorità è
un terreno tutt’altro che solido e trasparente.
Qualche
esempio? Politically correct, MeToo, Black Lives Matter, LGBTQIA+, teoria gender, maschilismo
tossico, shitstorm, snowflake, sono tutte sigle,
movimenti, processi storico-culturali di cui si sente parlare quotidianamente e
che hanno dato un impulso rilevante al progresso sociale degli ultimi decenni.
Ognuna di esse in qualche modo fa appello alla sensibilità. Ma la rivoluzione
della sensibilità non finisce qui. L’awareness sui temi
del disagio psichico, dell’iperstimolazione e, per contro, della depressione
diffusa, la crisi pandemica del contatto sono altri esempi di problematiche
imperniate sulla propria percezione e reazione a stimoli esterni.
Svenja
Flasspöhler, filosofa tedesca e scrittrice, in Sensibili compone
un itinerario incredibilmente vasto, curioso e approfondito che avvicina con
ottimo profitto voci distanti nel tempo e negli intenti, da Derrida a Jünger,
da Hume a Elias, da Canetti a Butler fino a Freud, per dare non solo sostegno
teorico alle questioni d’attualità, ma soprattutto per mostrare le origini
storiche profonde del processo di sensibilizzazione della società. L’autrice
sceglie di mantenere, non senza brillanti ironie, lo schema duale e oppositivo
che caratterizza il discorso pubblico su queste tematiche, per criticarlo
dall’interno. Fin dall’inizio della modernità c’è chi pensa che gli uomini e le
donne stiano diventando progressivamente intoccabili e che, di conseguenza,
“non si può più dire nulla”, e chi d’altra parte legittima la sensibilità
individuale come unica misura del sociale. Come la filosofia è chiamata a fare
quando fa il suo mestiere, Flasspöhler problematizza: chiarifica dove serve e
ha il coraggio di sparigliare le carte, dove serve. E malgrado la
ricchezza di punti di vista che l’autrice offre al lettore il suo timone è
sempre saldo, l’argomentazione ben ponderata e convincente.
In fondo questa
non è una storia recente. La sensibilità cresce da secoli: da quando Rousseau
ne parlava in termini entusiastici di autoregolazione dell’uomo buono, ma anche
da quando Guillotin decise di mettere fine, con l’omonima macchina, al truce
spettacolo delle torture pubbliche di chi era condanno a morte. La sensibilizzazione
della società ha una storia così lunga che Norbert Elias, una delle guide del
libro, ne fa una caratteristica dello stesso processo di civilizzazione.
Tuttavia c’è anche chi, come Jünger e molti altri scrittori che si sono trovati
nel bel mezzo della guerra, esalta la durezza del sé, canta l’insensibilità
prodotta dall’esaltazione di chi ha la morte in faccia: virilità, resistenza,
durezza, forza. A guardarla da vicino, come fa Flasspöhler, la storia è fatta
di tinte miste, mai di assoluti. Così in gran parte delle testimonianze
storiche la sensibilità più fine, la vulnerabilità più profonda, si accompagna
alle lodi della volontà di potenza e dell’Übermensch nietzschiano.
Oppure, specularmente, il tentativo di rispettare al massimo la sensibilità di
un gruppo oppresso (come nel noto caso della traduzione del libro di Amanda
Gorman, affidata prima a Marieke Lucas Rijneveld, che in seguito ha rinunciato
in favore di una donna afroamericana, più indicata secondo l’opinione pubblica
a lavorare con la poetica dell’autrice) finisce per ripetere un paradigma
identitario che può sembrare familiare a quello del potere oppressore.
La sensibilità è il nocciolo più profondo, opaco e potente dell’essere umano, è con essa che si deve misurare tutto, anche il mondo sociale che evolve con noi. Per questo l’ambivalenza, la duplicità, la complessità sono le fiamme che tengono vivo il discorso di Flasspöhler dall’inizio alla fine. Resilienza e sensibilità, vulnerabilità e forza, progresso sociale e circolarità storica: tra questi estremi non c’è scelta ma solo dialogo, avvicinarli l’un l’altro è più fruttuoso di quanto si pensi. Solo così si riesce ad abitare veramente il proprio corpo, così individuale e così sociale allo stesso tempo, soggetto e oggetto del potere ma soprattutto luogo della più sconvolgente delle alterità: quella che ci teniamo dentro e con cui solo la sensibilità ci permette di convivere.
Paolo Bosca, nato ad Asti nel 1996, è dottorando
presso l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e l’Università di
Torino, dove si occupa di estetica e geografia critica. Suoi scritti sono
comparsi, tra gli altri, su Il tascabile, Linkiesta Eccetera, Antinomie,
Cook_Inc Mag.