Quando nei pascoli accompagnavo il mio gregge, ero felice.
Quando sulla pelle il vento fresco dell'Elide diveniva carezza, e l'acqua della
fonte scendeva nella gola a dissetarmi più dolce del bacio di una dea, ero felice.
Osservavo nel verde il candore arruffato delle pecore con la gioia di un bimbo
che scopre i colori, e contavo le nuvole che dall'alto mi salutavano. Se una
lepre correva gioivo della sua corsa, e se un cespuglio era in fiore vi
affondavo le narici per inebriarmi del suo odore. Tutto in me e per me era
bellezza. Il fulgore rosato del tramonto mi lasciava senza fiato, e aspettavo
che il sole svanisse sotto la linea dell'orizzonte per vedere il cielo tornare
azzurro, e farsi poi violetto, e bruno
mentre soffice scivolava nella sera. Non avrei mai voluto chiudere gli occhi
nel sonno, per timore che mi sfuggisse la vista delle stelle, la loro luce
pulsante nell' infinito splendore della volta celeste. Raccolte le bestiole nel
recinto, mi sdraiavo sull'erba e fissavo i mutevoli movimenti del cielo, ora
sereno ora nuvolo e persino piovoso. La luna sorgeva e mi fissava come
sorridendo. Il suo chiarore dolcemente lambiva le pendici del monte, e
inondando i campi giungeva fino al mio giaciglio, fino ai miei piedi. La sua luce illuminava il mio corpo con una
tale intensità da riscaldarlo come fossero i raggi del sole, e sospiravo di
desiderio, a vederla splendere così lontana. Allungavo le mani verso di lei e
inutilmente speravo che gli occhi si saziassero della sua vista.
Cominciai ad attendere la notte per vederla. Il giorno perse il suo valore perché lei, Selene, non c'era. Era nella sua casa ombrosa ad attendere il momento in cui l'universo sarebbe stato suo, ed io con lui. La sua morbida luce si faceva ogni notte più intensa, mi percorreva le carni e spirava profumo di ambrosia. Il suo volto ogni notte era più vicino, e prendeva talvolta sfumature rossastre, come spudorate, che mi turbavano. Io, Endimione, l'amavo di un amore che non mi consentiva di essere come prima libero e felice, e bevevo la vita solo dalle sue labbra, tremando al pensiero che potesse non tornare. Così una notte l'invocai, la supplicai e piansi. Io, povero mortale, non avrei mai potuto amarla come gli altri che di donne mortali si innamorano. Io avrei potuto soltanto struggermi nel desiderio di lei fino alla fine del mio tempo. Ero stanco e non sapevo dormire, ero sfinito dall'inutile attesa e non sapevo fuggire da me stesso. Forse quella preghiera la mosse a compassione. I miei occhi non si chiusero ma seppi che stavo dormendo. Scese tra le mie braccia e mi avvolse nella sua luce in un abbraccio ineffabile. Non saprei dire come fosse il suo volto, e il corpo che mi avvinceva in un'estasi senza fine: quando svanì, restai a giacere attendendo il suo ritorno. Da così tanto ella viene da me che non potrei dire se mesi, anni o intere vite.
Il mio sonno è il mio sogno e il suo amore è la morte, anche se in quell'amore continuo a vivere.
Maria Colaizzo