La Pasqua ebraica (Pèsach) ricorda la liberazione del popolo ebraico
dall’Egitto, il suo esodo verso la Terra Promessa, e dura 8 giorni, quest’anno dal 5 al 13 Aprile.
La Pasqua Islamica è la festa
del sacrificio; ricorda il sacrificio del Profeta Abramo nei confronti del
figlio Isacco; la durata varia da 1 a 4 giorni.
La Pasqua dei cattolici è la
festa che commemora la resurrezione di Gesù, descritta nel Nuovo Testamento. È
stata celebrata, quest’anno il 9 aprile.
(NdR)
“Quando infuria il dolore, restano
solo le donne”
di Antonio Sanfrancesco
Giovanni lo
annota con piglio quasi da cronista: “Stavano presso la croce di
Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di
Màgdala” (Gv 19:25-42). La scena si svolge poco fuori le mura
di Gerusalemme su uno sperone roccioso chiamato “Golgota”, in
aramaico “Cranio”, ribattezzato “Calvario” dai Romani. Due sbrigative
sessioni processuali, durate poche ore e celebrate davanti alla massima autorità
giudaica, il Sinedrio, e a quella imperiale del procuratore romano Ponzio
Pilato, hanno condannato alla pena capitale il predicatore ambulante di Galilea
di nome Gesù. Adesso siamo quasi all’epilogo. Ad assistere all’esecuzione
ci sono alcuni soldati romani che dovranno constatare l’avvenuto decesso del
condannato. Incombe Shabbat peraltro, e bisognerà fare in fretta. I discepoli
di quel predicatore si sono dileguati tutti. Anche quelli che solo qualche
giorno prima l’avevano accolto trionfalmente a Gerusalemme con rami e fronde
d’ulivo se la sono data a gambe levate. Qualcuno ha pure giurato e spergiurato
di non conoscerlo e di non averlo mai frequentato quel crocifisso che
con le sue parole ha gettato scompiglio nella paludata società dell’epoca. I curiosi
osservano lo spettacolo da lontano più per morbosità che per compassione.
23.03.2016
Morire dopo
essere stati condannati al supplizio infamante degli schiavi è già una pena
terribile. Morire da soli è una pena nella pena. Muoiono soli –
lontani dagli affetti dei propri familiari e nelle mani di aguzzini senza
scrupoli – i migranti nel Mediterraneo durante le traversate a bordo
di navi negriere. Muoiono sole, dopo essere state stuprate e torturate, le
donne costrette a prostituirsi che si ribellano ai loro magnaccia. Muoiono
soli, negli inferi delle nostre città, i disperati e gli
invisibili d’ogni tipo e disavventura: senzatetto, tossicodipendenti,
alcolizzati, poveri, gente che s’è arresa definitivamente alla strada e alle
sue leggi. Muoiono soli i bambini malnutriti, malati e agonizzanti nei
lebbrosari africani e indiani. Muoiono soli coloro che decidono di farla
finita perché la vita è diventata un fardello insopportabile. Muoiono soli
gli anziani abbandonati negli ospedali e negli ospizi.
Questa mappa
dell’orrore e dell’infelicità di tanti dannati della terra sarebbe ancor più
tetra e oscura senza le innumerevoli e spesso anonime testimonianze d’amore nei
loro confronti da parte di donne. Missionarie, laiche, religiose, volontarie.
Come sul Calvario, impavide e ardimentose, quasi eroine salgariane, vanno in
posti da dove tutti scappano. Raccolgono gli scarti delle nostre città e li
curano, li strappano alla violenza e al dolore, spezzano la spirale del male,
talvolta accompagnano questi disperati alla morte con uno sguardo, una carezza,
un gesto che restituisce loro un brandello di dignità prima della fine. Sono
quasi sempre donne, proprio come quelle che fino all’ultimo seguono Gesù e ne
accompagnano l’agonia e la morte sul Calvario quando non era certo
politicamente corretto mostrarsi compassionevoli, fino a quel punto poi, nei
confronti del condannato. Superano pregiudizi e incomprensioni, sono
capaci di farsi beffe dei risolini di scherno di chi suggerisce che è meglio
lasciar perdere e non avere nulla a che fare con certi reietti.
“Stavano”, dice
lapidario il Vangelo. Lo stare delle donne sul Calvario e sui calvari della
storia non è una mera presenza di routine, un dovere d’ufficio, l’occupare uno
spazio, l’assolvimento di un obbligo in nome della retorica stucchevole della
solidarietà. Lo stare di queste donne è compassione, pietà, lotta per la
giustizia, coraggio, anticonformismo. Queste donne, che “stanno” e non
scappano, conoscono e vivono a fondo la vita a dispetto di un pregiudizio
patetico e duro a morire di chi talvolta le considera dimesse e fuori dal
mondo. A differenza degli uomini, spesso codardi e pavidi come quei
discepoli che scapparono e si chiusero in casa per paura e viltà, queste donne
“stanno” con un coraggio che meriterebbe espressioni di ammirazione quasi
militaresca. La loro è una risolutezza gentile, tipicamente femminile, che le
spinge a difendere, aiutare, comprendere senza voler insegnare, ordinare e
neppure convertire. Il loro stare è una battaglia permanente. È la
dimostrazione, concreta, quasi carnale, che l’amore è spesso arduo, insidiato,
magari oltraggiato ma possibile e necessario. Il loro stare è il segno più
potente dell’amore che non giudica e che il principe di questo mondo, il
male, è già stato giudicato, come dice la Scrittura. Lo stare di queste
donne è il coraggio della santità, religiosa o laica che sia. È il coraggio
di Etty Hillesum, la ragazza morta ad Auschwitz che “non sapeva
inginocchiarsi”, come ha confidato lei stessa, ma di fronte alla possibilità di
salvarsi scelse di restare nel campo della morte per aiutare gli altri
condannati . È il coraggio di suor Rita Giaretta, scappata letteralmente
di casa, ribelle alla madre che voleva trattenerla in una vita per lei falsa e
posticcia, per ridare dignità alle donne vittime della tratta.
È il coraggio
delle tanti madri anonime che non si vergognano di andare in carcere per
trovare i figli detenuti. È il coraggio delle madri di Plaza de Mayo e della
loro lotta non violenta contro il regime argentino. È il coraggio di suor
Eugenia Bonetti, anche lei infaticabile guerriera contro la tratta delle
schiave per il commercio sessuale, che una volta mise in imbarazzo George Bush.
Lui aveva voluto conoscerla e le aveva chiesto: “Sister, secondo Lei, noi
governanti, facciamo abbastanza contro il traffico umano?”. “No, signor
Presidente, non fate abbastanza”, gli rispose impavida. È il coraggio
di Silvia Romano, la giovane cooperante rapita in Kenya, schernita e
accusata di ingenuità e leggerezza per aver scelto di andare in Africa. È il
coraggio di Cristina Cattaneo, che nel suo laboratorio di Milano cerca di
dare un nome, e quindi la dignità, ai resti dei migranti morti nel
Mediterraneo.
Queste donne non
hanno nulla del santino politicamente corretto, non possono essere arruolate
come testimonial di una filantropia tutta glamour e discorsi edificanti. Ogni
giorno scelgono di non scappare e “restare”. Da storie di odio riescono a tirar
fuori e insegnare l’amore.
Tratti
da “Il Libraio.it”
(Segnalati
da Elvira Picciola)