Una passeggiata
“Mala cosa nascer povero,
caro il mio Renzo”. Così Perpetua a Renzo Tramaglino, e sembra quasi un
proverbio. Se si nasce poveri non c’è un perché, se lo si diventa forse ce n’è
uno, e se da poveri si diventa ricchi è il caso di indagare. Il destino dei
poveri sembra comunque immodificabile: quelli ufficiali, quelli invisibili,
quelli visibili, quelli che chiedono e quelli che aggrediscono, quelli che
lentamente muoiono. Povertà di mezzi,
inaccessibilità ai beni essenziali, ai servizi sociali, incapacità di
soddisfare i bisogni, esclusione dagli spazi e privazione dei diritti…: non vi
dispiaccia se vi porto con me nella ordinaria passeggiata napoletana che mi
concedo, nulla di speciale. La signora grigia e malvestita che ti porge i
ventagli vuole offrirti sollievo dal caldo e non rinuncia alla propria dignità,
anche se nello sguardo -infinitamente stanco- si leggono fame e dolore. Non
potresti chiederle come si chiama e se ha da mangiare senza offenderla. Troppo
facile osservare il contrasto con le signore curate che camminano per strada
guardando le vetrine e – forse – hanno la sua stessa età. Poi la sfrontatezza
della madre africana che esibisce i figli...abbigliati e acconciati con colori
sgargianti, e sgargiante anche lei, quasi a volerti far partecipe di quella
bellezza in cambio dell’elemosina. Il nigeriano sdentato che ti sorride mentre
aspetta il rosso del semaforo per lavare i vetri delle auto recita la parte del
servo affezionato, e l’anziano seduto sulla panchina maledice farmaci e
farmacisti. E’ difficile amare i poveri, aiutarli ancora di più. Non c’è bisogno
di leggere il giovane Orwell per incontrare la disumanità delle gerarchie
sociali, basta una passeggiata. La povertà cancella il fondamento etico dei
rapporti umani, paralizza i progetti di lavoro e di futuro, trasforma la rete
comunitaria sociale in una fragilissima ragnatela esposta ai venti. Il senegalese
Colin in cambio di una elemosina mi chiama mamma. Non sa che mi addolora
usurpare quel nome per una manciata di spiccioli; così immagino che non sia un
espediente per svuotarmi il borsellino, ma un modo per sentirsi protetto da uno
slancio affettivo sincero. A questa condizione, prima lo inviterò a pranzo e
poi lo abbraccerò. Ma so che gli ‘svantaggiati’ hanno nel cuore il
risentimento, che la solitudine cui sono esposti e condannati ne fiacca la
capacità di amare e di distinguere. La povertà li acceca come una colpa, li
rende diffidenti ed aspri. Dice Orwell che “quando un uomo va avanti una settimana
a pane e margarina non è più un uomo: è solo un ventre con qualche organo
accessorio” (Senza un soldo a Parigi e a Londra). Allora la miseria giustifica
le azioni spregiudicate, l’inerzia morale, il vuoto del cuore. Anche se Colin
venisse a pranzo da me tutti i giorni non risolverei il suo problema. Dovrei
forse adottarlo, e adottare le sue migliaia di simili. Ma se non posso farlo,
qualcun’altro dovrebbe occuparsi della immensa popolazione dei miseri, sempre
più ignorati e sempre più emarginati. La ricchezza che produce la povertà è
l’unica in grado di affrontarla. Se non ci riesce, è perchè è una ricchezza
malsana e decadente, fittizia ed ingiusta, ipertrofica ed egoista. Ho chiesto
al mio amico Mohammed, che ha il nome di un principe ma principe non è, di
dirmi che ne pensa, e se c’è una soluzione. Lui è bello anche se vestito di
stracci ed ogni suo gesto emana nobiltà e saggezza. Pensa che un buon modello di società tribale potrà salvarci dalle
disuguaglianze e dalla miseria. In un prossimo futuro.
Maria Colaizzo