Nasceva oggi, il 19 aprile 1923, lo scrittore e attivista Rocco Scotellaro. Per l’occasione riproponiamo un pezzo originariamente uscito su Lo straniero.
A Palazzo Lanfranchi, a Matera, è conservata Lucania
61, la grande opera pittorica di Carlo Levi lunga 18 metri e mezzo e alta
più di 3, che rappresentò la Basilicata alla “Mostra delle Regioni” organizzata
a Torino nel 1961, in occasione del primo centenario dell’Unità d’Italia. Lucania
61 racconta in cinque pannelli, che probabilmente costituiscono la
summa del Levi pittore, la storia della Lucania contadina e di Rocco
Scotellaro, il poeta in bilico tra mito e oblio, che ancora ci interroga, non
solo attraverso quel quadro.
Scotellaro nacque il 19 aprile del 1923 a Tricarico,
da padre calzolaio e da madre sarta e “scrivana” del vicinato. Morirà il 15
dicembre del 1953, stroncato da un infarto, a Portici. Nei trent’anni della sua
breve e intensa esistenza sono racchiusi tutti i segni del più grande
sommovimento che abbia travolto il Sud nel Novecento: il ridestarsi di un mondo
contadino e bracciantile per certi versi fino a quel momento “fuori dalla
Storia”, o comunque relegato ai suoi margini. Scotellaro fu, come disse Carlo
Levi che lo considerava un fratello minore più che un figlio, “il poeta della
libertà contadina”: il narratore di quel lungo processo di liberazione, mentale
non solo materiale, culminato nell’occupazione delle terre della fine degli
anni quaranta, negli incerti successi e insuccessi della riforma agraria e,
soprattutto pochi anni dopo la sua scomparsa, nell’emigrazione di massa verso
il Nord. A differenza di chi aveva raccontato quel mondo dall’esterno, Scotellaro
fu il primo a farlo dall’interno. Le poesie di È fatto giorno che
vinsero il Viareggio, il romanzo incompiuto L’uva puttanella (che
Levi riteneva superiore allo stesso Cristo si è fermato a Eboli),
l’inchiesta altrettanto incompiuta di Contadini del Sud, pubblicati
tutti nel biennio 1954-55, costituiscono il nucleo del suo lascito.
Ma Rocco non fu solo un giovane intellettuale
meridionale del dopoguerra. Fu anche un politico, un amministratore: il
giovanissimo sindaco socialista del paese in cui era nato, Tricarico,
fortemente attraversato da quei sommovimenti. Della politica visse le gioia di
una vittoria elettorale forse insperata, la difficoltà estrema
dell’amministrare, le sofferenze della calunnia (per un accusa del tutto
infondata di malversazione fu addirittura costretto a una quarantina di giorni
di carcere, esperienza poi raccontata in alcune bellissime pagine dell’Uva
puttanella).
Per chi si volge a rileggere la sua opera, a
sessant’anni esatti dalla sua scomparsa, l’aspetto più interessate è proprio
questo intreccio irrisolto tra letteratura e politica, tra l’individuare
lucidamente i problemi, il saperli narrare, e il peso della loro
risoluzione. L’uva puttanella parla della sua infanzia, della
famiglia, della morte prematura del padre, della miseria nera della Lucania,
delle sue esperienza di sindaco, del movimento dei contadini e dei braccianti
per la terra… Le pagine più commoventi sono quelle in cui si racconta della
morte di Pasquale, un fuochista che ha perso il poco di cui viveva, e
dell’impotenza di un sindaco di fronte al suicidio di un povero, di fronte a
tutte le povertà cui non si riesce a mettere mano. Un tema doloroso, questo,
che ritorna anche nella riflessione, e nella vita concreta, di tanti
amministratori del Sud di oggi: proprio del Sud nascosto dei piccoli paesi di
provincia, in genere non raccontati, benché attraversati da una crisi profonda.
L’ultimo Rapporto Svimez, ad esempio, parla di una
società meridionale in decomposizione, attraversata da una feroce recessione, dalla
desertificazione industriale, dal non-lavoro dei giovani, del ritorno
dell’emigrazione verso l’esterno, proprio nel momento in cui il Sud sembra
espulso dell’agenda politica, dagli slogan dei leader emergenti, e il
meridionalismo dei Levi, dei Rossi-Doria, dei Salvemini e dei Fortunato è stato
accantonato – sommerso dai latrati dei neoborbonici, che di esso sono l’esatto
contrario.
Nel Sud che si decompone riaffiorano tante storie di
povertà, solitudine, impossibilità di andare avanti, che andrebbero raccontate
al di là del medium giornalistico, al di là della concentrazione (e, quindi,
anestetizzazione) in poche righe superficiali, come accade in genere sui
giornali. Anche per questo, i libri di Scotellaro sono un esempio letterario su
cui meditare: un esempio complesso, sfaccettato, poliedrico, come tutte le
narrazioni che sorgono seguendo mille rivoli, e che per giunta, come nel suo
caso, restano incompiute. Eppure queste strutture narrative stratificate sono
oggi un modello con cui fare i conti, un modello significativo di inchiesta, di
costruzione di biografie di uomini e donne sconosciuti, di rielaborazione di
racconti ascoltati a voce o raccolti “in presa diretta”, persino di
autobiografia politica, tra pubblico e privato. Si coglie in ogni pagina in
prosa di Scotellaro il tentativo di trovare una soluzione letteraria
all’organizzazione di questo materiale complesso, la riflessione costante sul
medium della scrittura (prima o terza persona singolare, italiano o dialetto,
lingua parlata o scritta…) affinché esso non strozzi la vita di cui si vuol
dire, ma la faccia invece scivolare nelle pagine.
Rocco Mazzarone, medico epidemiologo che gli fu amico,
tra coloro che hanno condotto nel materano la lotta contro la malaria e la
tubercolosi, ha ricordato più volte come Scotellaro fosse pienamente
consapevole della complessità del tessuto sociale del suo paese, e del Sud in
generale. Non era solo il poeta della libertà contadina. Lo fu innanzitutto,
certo. Ma fu anche consapevole, da sindaco, della necessità di creare alleanza
sociali molto più ampie e complesse; come fu cosciente dell’importanza di
uscire (per un po’ di tempo) dal proprio mondo, per meglio comprenderlo con uno
sguardo allo stesso tempo interno ed esterno.
Anche per questo, conclusa amaramente l’esperienza di
sindaco, Scotellaro si trasferì a Portici, all’Istituto di Agraria diretto da
Rossi-Doria, con l’idea di acquisire strumenti maggiori per intervenire sul Sud
in trasformazione. È in quella fase che nasce l’idea di realizzare l’ampia inchiesta
sui Contadini del Sud, raccogliendo storie “sul campo”, in tutte le
regioni del Mezzogiorno continentale.
In una lettera a Rossi-Doria del luglio del 1948,
all’indomani delle elezioni politiche, Scotellaro scrisse: “Mi sostiene ancora
una profonda fiducia d’un lavoro serio, animato dalla ribellione al conformismo
del tempo”. Rossi-Doria gli rispose che un’epoca ormai si era definitivamente
chiusa: “Per essere capaci di vivere utilmente quella che si apre o forse
quella che seguirà a questa, bisogna prendere atto con assoluta chiarezza di
questo fatto e bisogna cambiar vita. Di agitatori nessuno ha più bisogno e meno
che mai i nostri poveri contadini di Basilicata.” Aveva anche lui profonda
fiducia in un lavoro serio, animato dalla ribellione al conformismo del tempo,
ma da “una ribellione fredda; senza fumi, alimentata da un lavoro cocciuto e
paziente che alla fine ce la deve fare a riuscire. È in questo senso che ho
imposto tutta la mia vita. Dalla politica per ora mi sono ritirato e faccio la
mia politica del mestiere.”
La politica del mestiere, per Rossi-Doria, così come per Scotellaro, nasceva innanzitutto dallo studio non ideologico della realtà e dalla consapevolezza di aver pazienza circa i tempi dell’intervento. In un Sud mutato rimangono – ancora oggi – l’estrema fatica di intervenire sulle cose, sulla materia dei rapporti umani, per trasformarli, e l’estrema fatica di raccontare le linee di frattura, la complessità delle tensioni sociali, che spesso mutano (come rilevava Scotellaro) da paese a paese all’interno della stessa provincia, la cultura e la politica, i comportamenti elettorali, le alleanze elettorali, gli immobilismi vecchi e nuovi, il ruolo dei luigini. Rispetto a sessant’anni fa, proprio perché il Sud, più che il resto d’Italia, ha vissuto una fase di crescita e decrescita infelice, di accesso alla società dei consumi e poi di ripiegamento nell’assenza strutturale del lavoro (e sovente di una cultura del lavoro, soprattutto dopo il fallimento dei grandi poli industriali), serpeggia un rancore maggiore, a volte difficile da afferrare. Una collera, mista ad apatia, su cui è complicato edificare qualsiasi cosa.