tratto da “internazionale.it” del 28 febbraio 2023
Sono uscite due indagini
importanti su chi vive per strada. Ma sembrano esprimere più il desiderio di
chi osserva che la condizione di chi ci vive.
In Italia lo
stadio di calcio più grande, il Meazza di Milano, ha circa ottantamila posti.
Se tutti i senzatetto e senza dimora del paese vi si dessero appuntamento,
migliaia di loro resterebbero fuori. Nella sua
rilevazione più recente l’Istat ne ha contati 96mila. Sono perlopiù uomini (67 per cento), italiani (62 per cento) e con un’età
media di 41 anni.
L’indagine è
stata pubblicata nel dicembre 2022, sette anni dopo la precedente, un tempo che
indica bene l’interesse per la questione, cioè il disinteresse. Inoltre,
considera solo chi è iscritto agli indirizzi delle associazioni o delle vie
fittizie istituite dai comuni per chi non ha una residenza. Escludendo quindi
migliaia di stranieri irregolari e di italiani che non possono o non riescono
ad accedere a questi strumenti. La cifra fornita dall’Istat è dunque
un’approssimazione e, volendo essere più precisi, si potrebbe dire che è
un’approssimazione per difetto. In Europa conosciamo nel dettaglio il numero di maiali e mucche che ci sono negli allevamenti, ma non quello delle
persone che vivono per strada.
Qualcosa di
simile succede riguardo alle loro morti. In Italia, a differenza del Regno
Unito e altri paesi, i dati non sono il risultato di indagini statistiche
ufficiali ma del lavoro della fio.PSD la federazione nazionale delle organizzazioni che si
occupano di persone senza dimora. Gli ultimi sono usciti il 6 febbraio e
descrivono una situazione drammatica: “Il 2022 porta con sé il bilancio più
pesante degli ultimi tre anni anni. Le persone decedute sono state 393, più di
una al giorno”. Il 55 per cento in più rispetto al 2021, l’83 per cento
rispetto al 2020. La ricerca sconfessa il pensiero comune secondo cui l’inverno
è la stagione più terribile per chi finisce per strada. Ci si immagina che il
gelo possa spezzare un cuore: è vero, ma solo a metà.
Invisibile è una
parola catenaccio che spranga ogni discussione sull’argomento.
L’estate – senza
tregua dal caldo, senza molti volontari partiti per le vacanze, senza piani
comunali, che si concentrano in maniera miope solo sui mesi freddi – può essere
ancora più feroce. Nel 2022 ci sono state più morti tra le persone
senza dimora in estate. Nella stragrande maggioranza hanno riguardato uomini
(91 per cento) e stranieri (60 per cento). Il confronto con il resto della
popolazione è impietoso: in Italia in media si muore a 81 anni, le persone
senza dimora a circa 47. Le cause sono in gran parte riconducibili a condizioni
di salute precarie (37 per cento). Ma la principale (46 per cento) riguarda
“eventi esterni e traumatici: incidenti di trasporto e aggressioni o omicidi,
ma anche suicidi, annegamento, incendi, cadute e altri eventi accidentali”.
Sia i dati
dell’Istat sia quelli della fio.Psd, importanti nonostante i loro limiti,
fotografano un pezzo enorme del paese: ci sono più persone che vivono per
strada, nei dormitori, in edifici occupati o in rifugi di fortuna che a Lecce,
a Treviso, a Como. E muoiono spesso giovani, in condizioni terribili. Eppure
questa realtà così grande, così evidente, così evidentemente grande, è ancora
raccontata con una parola: invisibile. La Repubblica: “Senza dimora, per strada si muore
tutto l’anno, la strage invisibile e silenziosa”. Il Riformista: “La strage degli invisibili”. Avvenire: “La strage invisibile. Senza
dimora, un morto al giorno da inizio anno”. Il Sole 24
Ore: “Senza dimora,
gli ‘invisibili’ a Roma sono sempre più donne”.
In un articolo pubblicato sul Guardian
e tradotto da Internazionale, la scrittrice
e attivista Rebecca Solnit ha invitato tutti a trovare parole e storie nuove
per raccontare la crisi climatica, altrimenti c’è il rischio di assuefarsi a
quella che è descritta quasi sempre e solo come un’apocalisse. “Ogni crisi è
anche una crisi di narrazione”, scrive Solnit. “Siamo circondati da storie che
c’impediscono di vedere le possibilità di cambiamento, di crederci e di fare
qualcosa perché si realizzi”. A volte la situazione cambia, spiega Sonit, ma le
storie no: “E le persone le seguono ancora, come vecchie mappe che le conducono
in vicoli ciechi”.
Qualcosa di simile succede nel racconto
di chi si ritrova senza una casa. Una realtà molto diversa al suo interno, con
percorsi, storie e problemi che rendono unica ogni vita, ma che è etichettata
quasi sempre come “invisibile”. Una parola catenaccio che spranga ogni
discussione sull’argomento. Un termine che però sembra esprimere più il
desiderio di chi osserva questa realtà che la condizione di chi ci vive. Il
corpo di chi finisce per strada è del resto così visibile, esposto e vistoso da
essere scandaloso, da far girare molti dall’altra parte: nel desiderio che
sparisca, che diventi, appunto, invisibile.
“Ci raccontiamo storie per vivere”, ha
scritto Joan Didion. La scelta delle parole con cui lo facciamo, specie se si
tratta delle storie degli altri, di vite spinte ai margini, è fondamentale.
Raccontarle come invisibili, quando sono esattamente il contrario, tanto che
qualcuno vorrebbe perfino cancellarle dal panorama delle nostre città, è un
errore doppio.
Da un lato spinge a ignorare gli sforzi fatti da operatori, medici, attivisti e dalle stesse persone senza dimora per lasciarsi la strada alle spalle, le alternative ai dormitori come i progetti di housing first (la casa prima di tutto), le lotte quotidiane per risollevarsi. Dall’altro tramandano mappe che ci conducono in vicoli ciechi. Le parole possono dare potere. Ma anche toglierlo.