Cleò
sta per diminutivo di Cleopatra; è il nome d’arte di Florancela protagonista
del bellissimo film “Cleò dalle 5 alle 7” girato in bianco e nero da Agnes
Varda nel 1962. Quella Agnes Varda regista ed autrice di diversi film e
documentari considerata come la voce femminile (sicuramente inizialmente
l’unica) della Nouvelle Vague accanto a Godard e Truffaut.
Ero la prima
donna-autore. Dopo il mio mediometraggio "La
pointecourte", ero tutta sola
in quella grande ondata della Nouvelle Vague che seguì, ero l’alibi, l’errore.
Ma me ne fregavo, facevo i miei film e basta. Dopo ci sono state le registe
della rivolta femminista. Ma è stato un fuoco di paglia, non mi sono lasciata
intruppare. Però mi sono battuta perché le donne avessero ruoli tecnici e
creativi come operatrici, scenografe. Per cui mi sono fatta la fama di
femminista emmerdeuse», racconterà più tardi la
Varda a Manuela Grassi in una intervista del 2000 pubblicata su Panorama.
Il film narra le due ore
di attesa da parte della protagonista, Cleò appunto, del risultato di un esame
medico per la conferma di una grave malattia. In queste due ore Cleò, che è una
cantante di canzoni leggere abbastanza conosciuta, dopo aver provato per
distrarsi una canzone molto malinconica, decide di uscire iniziando così il suo
cammino senza meta nella città (Parigi) per il tempo che la separa dal responso
medico definitivo.
Colpisce la capacità, nella
semplicità dei dialoghi, di narrazione della paura di morire di Cleò in
contrasto con la vita della città che continua, ignara ed impersonale. Cleò infatti,
portando con sé la sua angoscia della finitezza del tempo, attraversa luoghi e
strade con una restituzione, tramite i dialoghi delle persone conosciute e
sconosciute che incontra, di una assoluta normalità,fatta di discussioni
politiche piuttosto che discorsi intimi tra amanti o ancora conversazioni di
piccole famiglie.
Infine giunta ormai alle
7, in compagnia di un giovane soldato, che all’indomani sarà al fronte della
Guerra di Algeria, incontrato nel suo vagare, si ritrova nel giardino
dell’ospedale dove il medico le conferma la diagnosi infausta ma le da anche una
speranza di guarigione.
È un film dove la bellezza
e la forza del bianco e nero, e la fragilità dei personaggi (Cleò, totalmente
impaurita dalla diagnosi, all’inizio del film, consulta una cartomante)
restituiscono attraverso la scansione del tempo (il film è fatto di piccoli
capitoli orari) il disincanto quale punto di partenza per un cambiamento di
prospettiva esistenziale.
È un film dunque sulla
percezione del tempo. Lei stessa dice, seduta un po’ stanca sulla panchina
dell’ospedale, al giovane soldato, anche lui con la sua esistenza sospesa: “Ci
resta così poco tempo” e, un minuto dopo: “Abbiamo tutto il tempo”.
È un
film sulla paura della morte e del disfacimento fisico (Cleò all’inizio del
film si guarda continuamente riflessa in specchi e vetrine), ma anche sulla
presa di coscienza della inesorabile finitezza delle cose, passaggio obbligato
che le fa dire nelle battute finali “Mi sembra di non avere più paura”, “mi
sembra di essere felice”.
Maria Vittoria Montemurro
n.d.r. il film è possibile vederlo sulla piattaforma Raiplay
nella foto la scena finale con i protagonisti Corinne
Marchand e Antoine Bourseiller