La stanza era illuminata dal sole del primo pomeriggio, che entrava dalle finestre e dagli alti balconi. La vista che si godeva ispirava grande serenità: le cime arrotondate e i versanti in lento pendio, il verde brillante nella luce diurna, calda e forte benché fosse inverno, le coltivazioni di viti e ulivi. Lontano si distinguevano dei terrazzamenti: ampi gradini di scale vegetate delimitati da muretti di pietra antica. Al primo piano in una grande sala le sedie erano disposte alquanto disordinatamente, in maniera casuale, anche perché gli occupanti le spostavano a loro discrezione, per meglio ascoltare quelli che di volta in volta prendevano la parola. Era un caseggiato in pietra, una casa rurale ristrutturata non si sa per quale uso iniziale. Ora accoglieva incontri e convegni, con la possibilità di una permanenza, definibile come una vacanza culturale. Gli ospiti vi erano giunti in orari e giorni differenti, sollecitati dalla pubblicità o naturalmente interessati al forum: alcuni di loro non partecipavano per la prima volta a quel tipo di incontro: lo dimostrava il fatto che si chiamassero per nome e conoscessero le storie gli uni degli altri, uomini e donne.
Il clima era sereno, cordiale. Il centro della stanza era occupato da un uomo sui cinquant’anni, con gli occhiali, una maglia verde su una camicia bianca. Anche lui prendeva la parola, in qualità di moderatore, e posava con calma lo sguardo sul gruppo mentre discorreva. Avresti pensato ad un incontro di vecchi amici, di compagni di scuola che si rivedono per festeggiare un anniversario, anche se soffermandosi sulle espressioni dei volti si poteva cogliere negli sguardi il senso vivo dell’interesse e dell’impegno.
Un signore più che attempato, discretamente elegante, alto e magro, si muoveva con passi misurati e lenti, talvolta incerti, e sembrava desideroso di comunicare. Gli era stata richiesta una testimonianza, in virtù della sua età e della sua esperienza. Riluttante al principio, aveva finito con l’accettare, per spirito di solidarietà, per desiderio di condivisione, e perché la storia ritorna e la memoria deve essere custodita con energica convinzione, e trasmessa. All’alba del terzo millennio non gli era rimasto troppo tempo, la sua storia doveva essere raccontata.
Si presentò come Ernesto Lamberti, vedovo, bancario, di religione ebraica. La sua storia era raccontata con dignità, smorzata, come per evitare all’interlocutore il dispiacere, per non farsi compatire. Ernesto era stato abituato a non comunicare i propri privati sentimenti per una forma rigida di educazione ricevuta in famiglia. Se ne doleva, ma il pudore gli impediva ogni forma di sfogo che non fosse contenuto e intorno a lui senso di rispetto e sensibilità avevano eretto un muro invalicabile.
Nel suo più remoto passato c’erano stati gli studi, il posto in banca, il matrimonio, una casa accogliente. Una vita giusta, su misura per così dire, in attesa della prole che prima o poi sarebbe arrivata. Intorno a lui molte novità, piacevoli e sorprendenti. Edilizia moderna, la macchina da scrivere Olivetti a disposizione, qualche automobile veloce da ammirare in strada, riviste illustrate per tutti i gusti. La moglie seguiva un corso pratico di economia domestica, ma le piaceva il teatro, ascoltava la radio, e non si riconosceva – almeno non integralmente -nel repertorio delle massaie italiane, ma questo ad Ernesto non dispiaceva affatto.
Dopo una primavera strepitosa venne l’estate del 1938, e sui giornali uscivano articoli sottoscritti in modo altisonante che sostenevano - più o meno – che gli italiani erano appartenenti ad una razza superiore e che - per carità- si astenessero dalla contaminazione biologica con le razze inferiori circolanti. Da quel momento le leggi discriminatorie vennero emanate con progressione impressionante, tra abusi e confische, divieti e limitazioni. Un anno dopo, nel luglio del ’39, la moglie di Ernesto si ammalò. Ernesto tentò inutilmente di ricevere lo status di ‘ebreo arianizzato’, come prevedeva uno dei decreti, per salvare il posto di lavoro e la casa, per sfuggire al verdetto del ‘tribunale della razza’ appena istituito, per curare la moglie sempre più malata e sempre più atterrita…
Le sue mansioni all’interno della banca erano state progressivamente svuotate, la sua immagine delegittimata. Marginalizzato, non si era subito accorto di quello che gli accadeva, né dei motivi per cui gli accadeva, fino a quando non aveva scoperto che non gli venivano più comunicate le informazioni indispensabili per l'ordinaria attività. Di questo si era quasi vergognato, e aveva cercato di rimediare attivandosi come meglio poteva. La declassazione gli era piombata addosso senza preavviso, come a seguire sarebbe arrivato il licenziamento, e si era ritrovato senza lavoro, mentre la moglie si spegneva. Era stata una compagna capace di comprendere e compatire, consigliare. Eppure Ernesto non si era soffermato con lei sulle crescenti difficoltà, sulle umiliazioni ricevute, non aveva manifestato la propria preoccupazione e poi la disperazione perché era malata, appunto, o anche per non sciupare la propria immagine ai suoi occhi, quella di un bancario stimato e apprezzato da tutti, a dispetto dei tempi e dei luoghi, come se quelle leggi inique non esistessero. Ora che lei non c’era più, la finzione era caduta e si era ritrovato senza se stesso, senza la casa, con l’unica non facile possibilità di un espatrio clandestino. Si allestivano campi di concentramento, si era precettati per lavori obbligatori, in genere lavori manuali, a Ferramonti entrò in funzione un campo di concentramento per ebrei stranieri. Sui volti degli ascoltatori una comune domanda aleggiava: com’era andata ad Ernesto? Era scampato all’internamento e alla deportazione? Perché in fondo era quello che tutti si aspettavano: il racconto cruento del poi, della lotta per la sopravvivenza, della liberazione finale. Fu come se Ernesto leggesse quelle domande negli occhi dei presenti. Allora disse: “Emigrai, cercando un luogo dove semplicemente continuare a vivere. Con me tutti quelli che non potevano più essere amministratori, insegnanti, presidi, impiegati, commercianti, pescatori e muratori, mentre Mussolini definiva insignificanti le perdite conseguenti all’espulsione di tanti lavoratori ebrei. Portai con me non l’orrore, ma lo stupore per quello che accadeva in Italia, supremo inenarrabile stupore, al di sopra di ogni possibile comprensione, giustificazione, analisi. Un gigantesco inutile ‘perché’ mi accompagnò negli anni che seguirono, che appartenevano ad un’altra vita, ad un’altra persona, ad un tempo diverso. Eppure alla mia domanda neppure la fine delle leggi razziali e della guerra fornirono risposte, e la mia fiducia nell’umano si sgretolò definitivamente contro il muro del silenzio. E’ questo il senso della mia testimonianza oggi qui: la mia vita e quella di milioni di persone andò a rotoli nel silenzio generale: delle comunità accademiche, degli atenei, delle scuole, dei luoghi di lavoro, dei condomini, dei teatri e delle palestre, delle banche e delle aziende, delle fabbriche e delle sartorie. Un silenzio talmente assordante che ancora mi rimbomba nelle orecchie”.
Racconto di Maria Colaizzo