I. La biblioteca
Lavorava
nella biblioteca comunale da una decina di anni, con grande soddisfazione. Al
mattino, riceveva il pubblico allo sportello del prestito, e accumulava le
richieste smistandole secondo la sezione di pertinenza e la collocazione. Si
cominciava timidamente a discutere, e senza troppa convinzione, della
catalogazione online, che avrebbe consentito la prenotazione da casa, ma
venivano accettate intanto richieste telefoniche, per venire incontro agli
utenti impediti da handicap o malattie. La posta elettronica non era ancora
attiva, ma lo sarebbe stata presto, e magari avrebbe comportato l'assunzione di
nuovo personale. Il regolamento della biblioteca era esposto al pubblico, in
bella evidenza, e una sala accogliente consentiva la consultazione dei testi esclusi
dal prestito. Per qualche manoscritto o un volume antico c'era bisogno
dell'autorizzazione del direttore, naturalmente. Dopo la pausa, il suo lavoro
continuava con il reperimento dei libri richiesti nelle diverse sale, una
decina, perché il patrimonio librario era alquanto ampio e si era recentemente
arricchito grazie ad alcune donazioni. Raccolti i libri nel carrello, gli
toccava portarli allo sportello delle consegne, che li avrebbe recapitati ai
richiedenti in giornata o al massimo il giorno seguente. Occasionalmente,
specie nei periodi di chiusura, lavorava alla catalogazione. Non gli
dispiaceva, edanzi indugiava, accedendo all'archivio cartaceo, sui titoli di
alcuni libri che avrebbe voluto leggere. Il venerdì, dal momento che il sabato
la biblioteca restava chiusa, prelevava infatti un libro per sé,
ripromettendosi di leggerlo nel fine settimana, dopo averne dichiarato e
sottoscritto regolarmente il prestito. Quando a sera la biblioteca chiudeva, e
prima che il custode lo sollecitasse, compiva un breve giro ispettivo dei
locali, per verificare che tutto fosse in ordine, che nessun lettore vi si
trattenesse ancora, immerso nella lettura e dimentico dell'orario o insensibile
alla campanella che annunciava l'uscita.
Chiusi
balconi e finestre, staccata la corrente elettrica, andava via con il custode,
per tornare nella modesta abitazione che occupava un paio di isolati più
avanti.
Il
paese gli era piaciuto da subito, quando la sede gli era stata assegnata dopo
aver vinto il concorso di bibliotecario. Ad un centinaio di chilometri dalla
sua città natale, gli consentiva di trascorrere del tempo nella casa dei
genitori, durante i weekend e le ferie estive. La vita vi scorreva serena, tra
le case di pietra bianca e le viuzze, le scalinate e le piazzette, e volendo si
poteva occupare il tempo libero in qualche escursione, a caccia di sagre e di
paesaggi montani. Gli piaceva ancor di più in inverno, quando la neve
imbiancava i tetti di vecchie tegole ed i comignoli, ed era costretto o meglio
autorizzato ad accendere il caminetto. Allora col pretesto della difficoltà del
viaggio restava in casa per tutto il sabato e la domenica, davanti al fuoco con
un libro tra le mani. Lo entusiasmava la possibilità di poter leggere quello
che voleva, senza dover ricorrere a difficoltosi e - per lui - costosi
acquisti. Se un libro non gli piaceva, lo restituiva subito e ne prelevava un
altro dagli scaffali, curiosando tra le pagine per trovarvi segni di una
precedente lettura, e controllava, anche, che le pagine ci fossero tutte,
comprese copertine e frontespizi. Quelle letture gli offrivano l'occasione di
avventure e conoscenze, di altre vite, situazioni ed identità, e gli toglievano
il desiderio di cimentarsi in relazioni reali, in esperienze concretamente
vissute. Trovava infatti impossibile che la sua modesta esistenza potesse
offrirgli le sensazioni e le emozioni che scorrevano tra le parole, e più le
storie erano avvincenti, più si allontanava dalla realtà e perdeva il gusto
della scoperta fisica e personale. I mondi fittizi nei quali viaggiava erano
così seducenti che a volte dimenticava persino di mangiare, e solo la premura
della vicina di casa lo salvava dalla fame. Lei sapeva infatti, con previdenza
e premura squisitamente femminili, quando era il momento per bussare alla sua
porta con la minestra appena preparata, di cui rimaneva un piatto, o con la
fetta di torta della domenica, o la bottiglia di vino ricevuta in dono dal
cugino campagnolo. Per queste attenzioni Giacomo ringraziava la donna con
sorrisi ed inchini, e una volta le aveva pure fatto il baciamano, cosa che
l'aveva imbarazzata. Margherita infatti era, nonostante l'età non più giovane e
la maternità fuori da un regolare matrimonio, una donna riservata e discreta,
che apprezzava la signorilità ed il garbo del suo solitario vicino di casa.
Era
una sera d'inverno quando il custode, che si chiamava Paolino, gli chiese la
cortesia di chiudere lui, e se poteva avviarsi a casa, perché si sentiva
febbricitante. In effetti era molto raffreddato ed il naso rosso e gli occhi
gonfi non lasciavano dubbi sulla sincerità della richiesta. Giacomo accettò con
semplicità, rassicurandolo; anzi gli offrì la sua disponibilità per aprire al
mattino del giorno successivo la biblioteca, così avrebbe potuto restarsene nel
caldo del letto qualche ora in più.
Dunque
effettuò il giro consueto, lasciando cadere lo sguardo sugli scaffali e sui
tavoli, come faceva sempre. Il finestrone di una sala era rimasto parzialmente
aperto, e Giacomo si affrettò a chiuderlo perché vento e neve non entrassero a
danneggiare il locale ed i libri. Mentre volgeva lo sguardo, però, notò un
libro il cui dorso non recava alcuna etichetta. Dal momento che questo era
impossibile, si avvicinò per verificare, e dovette servirsi dello scaletto,
perché il libro era sul terzo scaffale. In effetti si trattava di un libro non
catalogato, piccolo, che era rimasto per dir così invisibile a causa del suo
scarso spessore, nascosto dai volumi che a destra e a sinistra lo opprimevano.
Con un moto di stizza pensò alla bibliotecaria addetta alla catalogazione, una
certa Teresa, che gli era antipatica e che - a suo parere - parlava troppo e
lavorava poco, aspettando soltanto il momento in cui sarebbe tornata a casa
sua, a far la massaia.
Estrasse
delicatamente il piccolo libro e lo sfogliò. Era un libro stampato, in
caratteri non grandi, alquanto sciupato, di un autore sconosciuto, e recava
come data di edizione il 1970.
Si trattava di un diario. Lo scrittore, un tale Gaspare Carcara, vi raccontava ordinatamente le sue giornate ma soprattutto le sue esperienze pittoriche, almeno così sembrava a prima vista. Non volendo trattenersi oltre, dal momento che buio e freddo incalzavano, Giacomo prese il libro con sé, chiuse accuratamente porte e portone e tornò a casa.
II. Il libro dimenticato
Era
davvero un piccolo libro dimenticato. Il testo si apriva direttamente con un
diario, senza alcuna introduzione. Lo stesso titolo, Diario di Gaspare Carcara, non forniva alcuna indicazione. Non
restava che leggerlo. Si trattava forse di un artista misconosciuto, di cui
nessuno si era accorto ed occupato, le cui opere giacevano in case private, nel
più oscuro anonimato. Di pittori così il mondo era pieno, indipendentemente dal
loro valore e dai loro meriti. Giacomo si sentì molto responsabile, e nello
stesso tempo esaltato, dalla casuale scoperta. Decise di non rivelare a nessuno
l'esistenza del libro finché non ne avesse completato la lettura. Avrebbe
cercato il pittore e con calma avrebbe valutato l'entità del ritrovamento.
Primo
dicembre 1968
Oggi non uscirò, ma resterò al cavalletto per tutto il giorno. Provo il desiderio invincibile di dipingere il paesaggio che mi ronza nella testa da alcuni giorni. Niente figure umane, ma solo cieli, nuvole, alberi. Ho in mente una luce garbata, che evidenzi alcuni dettagli e volontariamente ne oscuri altri. Una luce che racconti il mio umore. Infatti nella giornata di ieri ho avuto la conferma che il sentimento che provo è inesorabilmente complesso, che mi avvince come una corda e che non vuole rivelarsi. Anna non mi aiuta, ma resta in attesa, come per sondare l'intensità del mio amore. Che sia amore, è sicuro. Penso a lei ininterrottamente, e quasi sempre con sofferenza. So tuttavia che non potrei vivere che qui, fare quel che faccio. Non sarei sopravvissuto nello squallore del paese. Qui tutto è movimento, cambiamento, colore. Certo dipingere è fatica e solitudine, ma è anche gioia profonda. E' vedere e non guardare, è conoscere.
Due
dicembre
Questi colori ad olio costano un occhio della testa. Sono rimasto un bel po' al negozio di Mimmo per decidere quali erano indispensabili. Alla fine ho comprato quelli che mi piacevano di più, non quelli che veramente mi servivano. Meno male che i pennelli ci sono. Li liscio e li ripongo come bambini. Mio padre è irritato dalla mia decisione. La mia inclinazione per l'arte è, per lui, uno sgradevole incidente. Un po' come avere un figlio omosessuale. Invece non lo sono: mi piace Anna, da morire. Il fondo del paesaggio è quasi terminato. Mentre asciuga, preparo la prossima tela. Il Maestro vorrebbe esporre i nostri lavori a metà febbraio. Devo farcela. Anna non ha telefonato. Non ha scritto. Ho incontrato quella cinica della sua amica, che mi ha guardato con aria compassionevole. Ammetto che non ero nelle condizioni migliori, ma dietro c'é dell'altro, lo so. Pensa che non sia all'altezza. Qualche settimana fa mi ha chiamato decoratore di provincia. Non le ho detto che è brutta, ma lo penso.
Tre
dicembre
La
fatica che richiedono le masse d'alberi è indescrivibile. Quest'olio non si
asciuga mai. E se nella grotta ci mettessi un cane? Un cane che dorme, per
esempio. Cancello tutto e dipingo dei fiori. I colori ci sono. Li preparo sulla
tavolozza e mi viene voglia di imbrattarmene le dita, la faccia. Dice il
Maestro che potrei dipingere qualunque cosa, che sono un artista naturale. E se
dipingessi il ritratto di Anna a memoria? Velata come una madonna?
Quattro
dicembre
Mi sembra che tutti siano più bravi di me. In Accademia li ho visti disinvolti, appagati. Oggi telefono ad Anna. Mi sembra evidente che non vuole prendere iniziative. Non ci si comporta in questo modo, con un amico. Inoltre mi sarei aspettato comprensione: sono uno straniero che affronta mille difficoltà, compresa quella non trascurabile di mantenermi in vita. Finirò col mangiare i colori ad olio, spalmati sul pane. Mi arrabbierò, se di nuovo dice che sono controcorrente, che non riesco a partecipare agli avvenimenti di questo tempo, del mio tempo. Quando dipingo, tutto mi si fa chiaro e la Natura, il mondo, l'animo umano si fermano tra le mie dita, sono sulla punta del mio pennello. Io non appartengo a questo frammento di storia, ma alla dimensione infinita dell'arte.
Cinque
dicembre
Il paesaggio mi verrebbe meglio se non mi incatenassero questi colori. Devo continuamente modificarli. Come erano fortunati gli antichi che li realizzavano da sé! Se potessi, ricomincerei dai pigmenti e dalle terre. Ossido di zinco e di titanio, di ferro di rame e di cobalto, solfuro di cadmio, di mercurio. Si fa per dire, sono un incapace. Non mi faranno mai esporre. Quando rimanevo a fissare il colore delle nubi che passavano veloci oltre le montagne, o sostavano sulla valle, mi sembrava così semplice carpirne i colori. Poi ho compreso che sfidare la natura è inutile, e che si può tentare soltanto di raccontare quello che dei suoi colori rimane nei nostri occhi e si riproduce nella mente, attraverso il filtro dell'anima.
Sei
dicembre
Non
le ho ancora telefonato. Mi sembra ridicolo correrle dietro. Ho litigato invece
con il giallo di cadmio arancio, che non vuole saperne di assumere una
posizione meno visibile. Ho provato con il giallo chiaro e con quello scuro,
per quella macchia di fiori nel prato, ma niente. Forse mi aiuterà il giallo
napoletano. Se non si asciuga non posso dare le ombre.
Ecco ho telefonato. Anna è gentile e mi fa dei complimenti. Mi incoraggia, anche. Dice che la mia voce al telefono è incredibilmente affettuosa, dolce. E' che non parlo forte per non farmi ascoltare dai vicini di casa, con queste pareti sottili. Mentre parlavo al telefono, ho punteggiato la parete con il giallo di Napoli rossastro e quello limone. Il risultato è gradevole, mi comunica energia. Domani usciamo, quattro passi al centro storico e una pizza.
Racconto di Maria
Colaizzo (continua)