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Ecco il testo  di Augusto Zazzaro, vincitore dell’VIII edizione del Premio Lucia Mastrodomenico,  per il liceo G.B. Vico di Napoli

 

Mi ritrovai seduta per terra in una stanza buia. Mi guardavo attorno, ma non vedevo nulla. Avevo paura di alzarmi, di allungare un braccio, di fare un passo in avanti, non sapevo se c’era qualcosa attorno a me, qualcuno che mi stava osservando. Rimasi ferma.

Passarono alcuni minuti – almeno a me sembraronoalcuni minuti – poi iniziai a sentire dei passi, sempre più vicini. Erano delicati, leggeri, non avevo paura. Continuavano ad avvicinarsi, poi si fermarono; una luce mi fece strizzare gli occhi, mi ero abituata al buio. Due sagome erano apparse sul ciglio di una porta. Le vidi avvicinarsi, la porta si chiuse, scomparvero di nuovo. Sentii i passi allontanarsi, poi ancora silenzio. Due forti colpi e poi luce, di nuovo. Questa volta riuscii a vedere da subito l’enorme finestra, mi alzai e guardai fuori, affacciava su un giardino, vedevo le siepi, alcuni alberi, vedevo in parte una fontana.

Anche le due sagome avevano preso colore; erano due donne, una di loro aveva i capelli coperti da un velo bianco, qualche ciocca rossa che le si poggiava sulla fronte; portava un vestito verde, con uno scialle poco più scuro che le copriva le spalle. L’altra aveva i capelli mossi, scuri che le cadevano dietro la schiena; portava un maglioncino nero che le copriva in parte il collo. Il nero dei capelli e dei vestiti esaltava il candore della sua pelle.

Mi si avvicinarono e mi strinsero la mano, a turno. Sorrisi, ormai ero convinta di potermi fidare, non so perché. Si presentarono: la ragazza con il velo si chiamava Terenzia, l’altra Elena; io feci lo stesso.

Avrei voluto chiedere un sacco di cose,dove fossimoperchéchi fossero loro, ma non feci in tempo, Terenzia prese la parola:

- Siamo qui per raccontarti una storia, due veramente.

-  Vorremmo raccontarti le nostre storie – precisò Elena.

- Nessuna delle due è una tua contemporanea.

- Soprattutto lei… – interruppe Elena.

- Dicevo… Sono nata nel II secolo d.C. e appartenevo ad una famiglia di umili contadini.

Improvvisamente il pavimento iniziò a tremare, poi sprofondò, noi cademmo, sempre più giù, fino a che non ci ritrovammo in piedi davanti ad una staccionata. C’erano immensi campi coltivati, c’erano delle piccole capanne ricoperte di paglia sparse qua e la. In lontananza, su una piccola collina, si ergeva un immenso palazzo in pietra, circondato da altre costruzioni più piccole ma ugualmente preziose. Il perimetro era definito da mura altissime spezzate regolarmente da una serie di torri.

- Mio padre lavorava con mio fratello nei campi del nostro padrone, ci pagavano con una parte di raccolto. Mia madre invece lavorava negli allevamenti, io andavo con lei. Questa vita mi piaceva, mi sarebbe piaciuto vivere così per sempre; invece,a quindici anni mi fu detto che dovevo andare via. Un certo Emilio sarebbe diventato mio marito e con lui avrei passato il resto della mia vita.

Ricordo bene quella sera, dopo cena fui trattenuta da mio padre a tavola. Mi disse che ero fortunata, che alcune ragazze vanno via anche prima, mi disse che ero fortunata perché mi sarei sposata con un uomo molto “più in alto di me”. Mi sono sempre chiesta come si possa definire tutto ciò fortuna!

Io ed Elena seguivamo Terenzia, ci mostrava quello che raccontava.

-Conobbi Emilio esattamente un mese dopo il mio quindicesimo compleanno, era molto più grande di me, ma basso, con la pancetta, qualche filo di barba gli sporcava la faccia, non mi è mai piaciuto. Mi trasferii immediatamente a casa sua e una settimana dopo ci sposammo. Mi costrinse ad avere un figlio, poi un altro, a ventunanni ero madre di sei figli, di cui due gemelli. Il mio compito da allora è sempre stato quello di madre e di moglie, null’altro. Non ho mai sopportato questa situazione, forse perché ero sorella minore di un maschio che avevo visto crescere felice, con i miei genitori. Lo avevo visto sposarsi, avere figli, ma l’ho sempre visto felice. Conobbi sua moglie, Romilia, facemmo amicizia, entrambe capivamo l’altra, entrambe soffrivamo. Capii che non era Emilio, non ero io, ma la condizione di tutte le donne; eravamo tutte destinate all’infelicità, alla sottomissione, tutte schiave del potere che chissà chi aveva dato agli uomini. Romilia ed io ci vedevamo spesso, molte volte di nascosto. Non eravamo autorizzate ad uscire, potevamo andare solo a comprare il cibo e potevamo farlo solo la mattina. Così decidemmo di vederci al mercato, tutti i giorni, quando il sole illuminava l’undicesima stella al centro della piazza. Mentre guardavamo cosa comprare, discutevamo. 

Raccontavamo a turno tutte le volte che eravamo state abusate, obbligate a fare cose che non volevamo, trattate come esseri ripugnanti, piccoli, insignificanti.

Era ormai un appuntamento fisso, ma un giorno Romilia non si presentò. Non era mai successo, e quelle volte in cui una di noi non potevaandare al mercato, facevain modo di far arrivare il messaggio all’altra; questa volta niente. Pensai che potesse essere successo un imprevisto e decisi di non preoccuparmi. Aspettai tutto il giorno un messaggio, qualcosa o qualcuno che mi comunicasse perché quella mattina non si era presentata. Non arrivò nulla.

Il giorno seguente Romilia non si fece vedere, così decisi di andare a casa di mio fratello a vedere cosa fosse successo. Quando fui a una trentina di metri dalla loro casa, la porta si spalancò; mio fratello e un altro uomo stavano trasportando il corpo di Romilia, intanto ridevano.

Corsi verso di loro, non pensavo alle conseguenze, correvo. Iniziai ad urlare il nome di Romilia, piangevo. Mio fratello mi guardò avvicinare, lasciò cadere il corpo a terra e mi afferrò il braccio; mi scaraventò a terra e iniziò ad urlare:

- Cosa vuoi?

- Che le avete fatto?! – piangevo.

- L’ha voluto lei. Io le avevo detto di obbedire, ma…

- Tu sei un mostro.

Sapevo di non poter fare niente, piangevo; corsi via, tornai a casa.

Quella sera, quando Emilio rincasò, mi prese per i capelli e mi scaraventò a terra. Cominciò a tirarmi calci e pugni e gridava che avevo disobbedito. Mio fratello gli aveva detto che ero andata da lui e che gli avevo mancato di rispetto.

- Sei una delusione! – gridava – Mi hai fatto fare la figura di quello che non sa tenere a bada la sua donna!

Continuava a picchiarmi, mi dava schiaffi, pugni, mi tirava per i capelli e mi lanciava a terra, mi prendeva a calci.

Fu il mio più grande rimpianto, non aver fatto nulla per Romilia, per me, per tutte le donne. 

Non mi fu data altra possibilità, Emilio finì per togliermi la vita.

In quel momento eravamo a casa di Emilio e Terenzia e il pavimento riprese a tremare. Sprofondò, ricominciammo a cadere nel vuoto, poi ci ritrovammo in un giardino. Era quello che vedevo dalla finestra, riconobbi la fontana.

Guardai loro, erano indifferenti, come se non fosse successo nulla. Iniziammo a camminare verso una panchina, poi ci sedemmo.

-Vorrei che sfruttassi le possibilità che hai per aprire gli occhi alla gente, per riscattare tutte noi, è per questo che ti ho raccontato tutto questo.

- Capisco, ma cosa potrei fare? Inoltre, grazie al cielo, le cose non sono più così.

- Me ne sono andata pochi anni fa, è vero, le cose sono cambiate, ma non è così semplice. - intervenne Elena.

- Non capisco, non mi sembra che la condizione delle donne oggi, sia paragonabile a quella di 1800 anni fa.

- Non intendevo questo, ma non significa che a noi debba stare bene così. Non credi che si dovrebbe fare ancora qualcosa? Ascolta quello che ti sto per raccontare, poi mi rispondi.

- D’accordo.

- Come ti dicevo, sono nata nel 1970, ma adesso non ci sono più, anche a me è stata tolta la vita da un uomo.

Questa volta un forte vento mi costrinse a portare le mani ai capelli, poi la panchina si staccò dal terreno; strinsi forte con le mani lo schienale, Elena e Terenzia erano immobili. Il vento mi costringeva a tenere gli occhi chiusi, intanto ci trasportava. Sentii la panchina toccare di nuovo terra, poi il vento cessare. Riaprii gli occhi, eravamo seduti in una piazza, vedevo alcuni palazzi, una chiesa, delle scale che scendevano sulla sinistra, altre che salivano sulla destra. Vedevo delle macchine, quelle antiche, d’epoca.

- Seguitemi.

- Abitavo qui, ma non era casa mia. 

Mi sono diplomata a diciotto anni, ho iniziato immediatamente gli studi, facevo matematica. Cinque anni dopo ero laureata e trovai il mio primo lavoro come insegnante alle superiori.

Fittai un piccolo appartamento e andai via da casa dei miei. A lavoro conobbi un ragazzo, si chiamava Marco, era premuroso, affettuoso, mi riempiva di attenzioni. Ero innamorata, ci mettemmo insieme. Dopo tre anni di relazione decidemmo di sposarci, ricordo che lui insistette molto, ma non ci feci caso. A ventotto anni andammo ad abitare insieme, in questa casa.

Ero felice, serena, mi trovavo bene con lui. Dopo qualche mese di convivenza però, il suo atteggiamento cambiò, era diventato più scontroso, più irascibile, più brusco nei modi.

Gli chiesi più volte se ci fosse qualcosa che non andasse, ma negava sempre.

            Anche Elena mostrava quello che raccontava, ci aveva portate in quella casa.

Era un martedì, era il mio giorno di pausa. Aspettavo che Marco tornasse per cenare insieme.

La porta sbatté, sobbalzai, guardai verso l’ingresso. Era tornato, ma era strano, più del solito. 

Mi si avvicinò e mi prese per il collo, mi trascinò in camera e mi lanciò sul letto. Ridevo, e intanto dentro di me pregavo che si fermasse; rimanevo immobile, e intanto sarei voluta scappare. Cercavo di credere che fosse uno di quei giochetti che fanno le coppie, ma il suo sguardo mi impediva di farlo. Era fuori di sé, capii che non voleva giocare, che le sue intenzioni erano altre. Iniziai ad avere paura. Mi spogliò, lo fece con violenza, continuai a rimanere ferma.

Mi assicurai che si fosse addormentato e mi alzai. Corsi a lavarmi, fu un incubo. Mi coricai sul divano, ma non riuscii a dormire, quelle immagini riapparivano così vere nella mia testa.

La mattina seguente si comportò come se non fosse successo nulla. Feci lo stesso, non sapevo come altro comportarmi, avevo paura di perderlo.

Passarono pochi giorni, accadde di nuovo. Era notte, dormivo. La sua mano afferrò il mio collo. 

Le immagini di quel martedì si alternavano a quello che stava succedendo, senza dissomiglianze.

Rimasi immobile anche quella volta, fu come non fosse successo nulla anche quella mattina.

Cambiai anche io, e se ne accorsero tutti. A lavoro, i miei genitori, tutti. Non dissi nulla, insistei nel dire che andasse tutto bene - ancora oggi non riesco a spiegarmi il motivo-.

Successe ancora, e ancora, e continuai a non dire nulla a nessuno, fino a quando un giorno rimasi incinta. Aspettavo un bambino, lo desideravo da sempre, ma non ero contenta, ero disperata.

Non sapevo come dirlo a Marco, non sapevo se farlo.

Passarono diverse settimane, poi gli mostrai il test. Era la prima volta, dopo un sacco di tempo, che parlavamo, veramente. Nell’ultimo periodo non succedeva più, cercavo di evitarlo, a pranzo, a cena. Quella volta invece fui io a cercarlo, fu un errore.

Prese il test, si voltò. Rimase diverso tempo con la testa china, lo sguardo fisso sul risultato - credo.

Chiesi cosa ne pensasse, se era contento. Non avrei dovuto.

-Contento? - disse lui ridacchiando sotto i baffi.

Si voltò di nuovo e mi scagliò il test contro.

-Contento? – ripeté, questa volta urlando.

Mi si lanciò contro, iniziò a tirarmi pugni contro la pancia, giurò che lo avrebbe ammazzato.

Non venne meno alla promessa. Andai in ospedale, chiamò il 118 lui stesso, poi scappò via.

Fu l’ultima volta che lo vidi. Fu l’ultima volta che vidi anche i miei genitori, in ospedale. Il feto aveva fatto infezione, mi uccise. Fu questa la causa di morte dichiarata; intanto avrei voluto urlare, urlare che il bambino non c’entrava niente, mi avevano ucciso i pugni di un uomo. Non potei. 

- Credi sia accettabile tutto questo? Fosse anche un caso su mille, credi sia giusto far finta di niente? Nonostante siano passati tanti anni, nonostante si sia combattuto molto, sembra sempre che noi donne dobbiamo eseguire le volontà degli uomini. Molti si credono legittimati a trattarci come giocattoli di cui fare uso a loro piacimento, poi ci sono quelli che si credono eroi perché rispettano le donne, perché non ne abusano. Credi sia possibile continuare a guardare e basta, non agire.- Intervenne Terenzia.

Quel forte vento tornò, raccolse noi tre, lasciandosi dietro i genitori di Elena, i medici. Ci trasportò di nuovo al giardino, di nuovo su quella panchina.

- Non credi che si dovrebbe fare ancora qualcosa, che qualcosa dovrebbe cambiare per poter essere davvero contenti della condizione di tutti?

Questa volta non successe nulla, niente vento, nessun terremoto, niente di niente. Iniziai però a rivedere quello che avevano raccontato Terenzia ed Elena. Il grande palazzo in pietra sulla collina, le stelle al centro della piazza, il mercato, i figli di Terenzia, casa loro, quella di Emilio, sentii le sue risate e subito dopo il rumore del corpo di Romilia che cadeva a terra, vidi Terenzia, sentii il rumore assordante delle mani che la colpivano sulla faccia, la vidi sofferente, a terra, guardai il suo corpo senza vita. Vidi i genitori di Elena, i suoi colleghi, Marco; vidi i segni delle unghie sulla schiena di Elena, sentii il suo pianto con il sottofondo dell’acqua della doccia, vidi le due lineette sul test di gravidanza, vidi Elena a terra, piegata in due, la vidi stesa nel letto d’ospedale, vidi il suo corpo, non la vidi più.
Non avevano colpe, non avevano fatto nulla, ma erano donne. Iniziai a immaginare le loro storie, le immaginai in un mondo in cui avrebbero potuto vivereveramente. Iniziai a immaginare questo mondo.

Non si parla di uomini e donne, tra uomini e donne non c’è distinzione, il gruppo degli uomini non esiste, non esiste nemmeno quello delle donne. 

Tra uomini e donne non c’è distinzione, è vero, ma non significa che gli uomini possano giocare a calcio e “anche” le donne, non significa che le donne debbano accudire i figli, ma lo possono fare “anche” gli uomini, non significa nemmeno che a cucinare piatti salati sia più bravo papà e a fare i dolci mamma: significa che di tutto questo non se ne parla, significa che le differenze tra uomini e donne si limitano a quelle fisiche, significa che “finalmente una donna al capo del governo” è una frase che non si pronuncia più, significa che a tutto questo non ci si fa più caso.

Si distinguono quelli che pensano da quelli che si limitano a seguire gli altri come pecore, gli onesti dai disonesti, gli idioti dagli stronzi, i coraggiosi dai codardi, gli egoisti dai generosi, ma in tutti questi gruppi troviamo uomini e donne, e non ci facciamo caso.

In questo mondo Terenzia non morirà uccisa dalle botte di un uomo: è proprietaria di alcuni campi e gestisce una piccola fattoria, dove lavora anche lei. Non si sposerà mai, non avrà figli, ma farà da zia a quelli del fratello, che invece è felicemente sposato e ha due bambini. Romilia non la conoscerà mai, non discuterà mai con nessuno di cosa fare per essere più felice.

Elena invece vivrà i suoi primi ventotto anni esattamente come li visse nella realtà, e si sposerà con Marco. Verrà violentata da lui, ma avrà il coraggio di denunciarlo, e troverà la legge pronta a renderle giustizia. Si risposerà più avanti con un altro uomo, realizzerà il suo sogno di avere una famiglia e morirà a ottantanove anni, madre di due figlie, nonna di tre nipotini, e senza alcun rimpianto.

Immaginai tutto questo.Una forte luce bianca mi costrinse poi a chiudere gli occhi, di nuovo.

-Lucia? Lucia?!

Mi sentii chiamare, alzai la testa e vidi il professore in piedi davanti al mio banco.

- Si professore?

- Dormito bene? Di tutto ciò a te non frega niente?

- Ma no professore, mi scusi, è che ieri sera…

- A me non interessa. Dato che i tuoi compagni sono intervenuti e hanno condiviso la loro opinione, lo farai anche tu… per iscritto. Quello è il tema. Buona fortuna.

Guardai la lavagna e lessi: “Si è creata oggi, nella nostra società, una reale forza femminile? Le competenze acquisite da alcune donne non dovrebbero essere sprecate, legittimate, giudicate. Essere emancipata non significa automaticamente omologarsi al mondo maschile.”

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Napoli, 20/02/22

Bambini, ragazzi, “uomini”,

Che di donne parlate senza riguardo,

Ascoltate. La “giustizia” punisce chi commette crimini,

Noi biasimiamo il codardo.

 

Esecriamo colui che crea dolore,

Che davanti alla violenza, tace

Vi conferite da soli il potere

Di giudicare e condannare come vi piace.

 

Uomini che dal mondo ve ne andate senza nulla lasciare, 

solo rubando, sorrisi, tempo e vita. 

Siete l’inumano, pietoso mare,

Di persone dall’anima appassita

 

Voi che credete legittimo

Imporre i vostri desideri ad altri

Non sentite che il battito

Dei piccoli cuori vostri

 

E voi, che per una carezza

Divenite per tutti eroi

Non siete altro che la peggiore razza

Di esseri che si muovono come avvoltoi

 

Così, nella bontà che non cerca ricompensa

Ho scoperto l’amore

E nel giudizio che cede alla sentenza

Ho trovato il dolore

 

Augusto Zazzaro