La scienza in tempo di guerra. Il lavoro e la vita degli scienziati ucraini è a rischio, mentre la ricerca scientifica russa è sempre più isolata.
Agnese Codignola è laureata in chimica e tecnologie farmaceutiche. Dopo anni nel campo della ricerca, si è dedicata interamente all’attività giornalistica. Oggi collabora con i principali gruppi editoriali italiani (RCS, Espresso-Repubblica, Il Sole 24 Ore, Focus-Mondadori e altri) occupandosi di salute, alimentazione, sostenibilità ambientale e scienza in generale. Il suo ultimo libro è “Il lungo Covid. La prima indagine sulle conseguenze a lungo termine del virus" (Utet, 2022).
Fino al 23 febbraio Anton Vlaschenko faceva un lavoro prezioso, la cui importanza era stata sottolineata molte volte, negli ultimi due anni: studiava i pipistrelli. Di più: custodiva il Centro ucraino per la riabilitazione dei pipistrelli, uno dei più grandi rifugi-laboratori di tutta l’Europa orientale, nel quale migliaia di esemplari delle più svariate specie stavano affrontando, in quei giorni, il loro periodo di letargo, riposando accanto a una delle più importanti collezioni di scheletri e altri campioni biologici del continente.
Per questo all’alba del 24 febbraio Vlaschenko ha intrapreso una missione che lo ha impegnato per gran parte dei giorni seguenti: il trasferimento di centinaia di questi pipistrelli dormienti (in speciali gabbie refrigerate, utili per un rapido rilascio), e di quelli in cattiva salute, non in grado di volare via, insieme con oltre 2.000 scheletri di Nyctalus noctula che stava studiando. Gli scheletri fino a pochi giorni fa erano ancora lì, in casa di Vlaschenko, etichettati e custoditi in grandi buste di plastica, pronti per essere spostati appena possibile. Vlaschenko, invece, si è nascosto, convinto che se i russi lo catturassero lo sottoporrebbero a tortura per fargli ammettere di star lavorando alla messa a punto di armi biologiche, dopo la dichiarazione di Vladimir Putin del 10 marzo, secondo la quale ci sarebbero dozzine di laboratori ucraini a questo dedicati, accusa ribadita il giorno seguente al consiglio di sicurezza dell’ONU dal consigliere Vassily Nebenzia.
Vlaschenko, però, come altri suoi colleghi, lavorava sui batteri e sui virus che vivono nei pipistrelli partendo da materiali biologici denaturati con etanolo, e quindi privi di qualunque vitalità: anche volendo, non avrebbe mai potuto compiere studi a rischio. L’Ucraina, per di più, non ha mai avuto laboratori a un livello di biosicurezza necessario per maneggiare agenti biologici pericolosi e stava partecipando anche al Biological Threat Reduction Program, programma cofinanziato dagli Stati Uniti per la messa in sicurezza di quanto rimaneva dell’arsenale sovietico, cui la stessa Russia ha aderito fino al 2014. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha poi definitivamente smentito la Russia riguardo alle accuse relative alla presenza di laboratori per armi biologiche.
La reazione della comunità scientifica internazionale a supporto di quella ucraina, a livello di singoli ricercatori, istituzioni e iniziative è stata immediata, tangibile e, nei limiti del possibile, abbastanza efficace.
La storia di Vlaschenko, raccontata da Science a più riprese, è simile a quella di molti altri ricercatori che durante la guerra in corso stanno cercando di preservare ciò che si può, di trasferire all’estero o in nascondigli sicuri i reperti trasportabili, di digitalizzare la maggior quantità di dati che le traballanti reti ucraine sono in grado di reggere. I ricercatori temono infatti due tipi di minacce: quelle indiscriminate, per così dire, o accidentali, come le conseguenze di una bomba lanciata su altri obbiettivi, ma anche quelle più mirate, prettamente politiche, che potrebbero colpire tutti i luoghi che rappresentano la storia e l’identità ucraine, come il Museo storico nazionale dell’Ucraina, che i russi potrebbero voler distruggere (e che per puro caso aveva appena prestato oltre mille oggetti al museo di Aarhus, in Danimarca, per una mostra sui vichinghi). Per salvaguardare reperti di questo tipo è nata la Saving Ukrainian Cultural Heritage Online, iniziativa lanciata in prima battuta per proteggere la musica tradizionale ucraina e diventata, in pochissimi giorni, la piattaforma in cui oltre mille musei sparsi su tutto il territorio nazionale, delle più varie dimensioni e finalità (comprese grandi istituzioni come l’archivio di stato di Kharkiv, ma anche i piccoli musei locali), stanno cercando di trasferire tutti i dati possibili, con non pochi ostacoli tecnici. Per alleggerire lo sforzo, istituzioni come l’università di Harvard e l’Istituto archeologico tedesco stanno mettendo a disposizione i propri database per ospitare parte dell’enorme quantità di materiali digitalizzati, compresi quelli derivanti dagli scavi archeologici del passato e del presente, molto attivi in Ucraina.
La reazione della comunità scientifica internazionale a supporto di quella ucraina, a livello di singoli ricercatori, istituzioni e iniziative, in ambito museale così come in tutti gli altri settori, è stata immediata, tangibile e, nei limiti del possibile, abbastanza efficace. Un’altra iniziativa, partita questa volta da Twitter, #ScienceForUkraine, ha raccolto in pochissimo tempo migliaia di offerte di posti di lavoro per ricercatori, studenti e docenti di ogni ordine e grado, ucraini o anche solo residenti in Ucraina, quasi sempre con alloggio e con la possibilità di portare i familiari – anche se la leva obbligatoria sta rendendo difficile, agli uomini, cercare rifugio in un laboratorio estero.
Se queste manifestazioni di solidarietà stanno aiutando, per quanto possibile, i ricercatori ucraini che si sono ritrovati in mezzo a una guerra, la situazione si complica invece sul versante russo: ci sono state, sin dai primi giorni del conflitto, domande di boicottaggio assoluto verso la scienza russa da parte di scienziati ucraini e di membri della comunità scientifica internazionale, ma le posizioni si sono subito divise tra di chi sostiene l’interruzione immediata e radicale di qualunque forma di collaborazione e chi invece pone l’accento sulla necessità della neutralità, e di mantenere il sostegno ai molti ricercatori russi che si sono opposti all’operazione speciale fino dalle prime ore, mettendo a rischio la propria vita, oltreché la carriera academica. Il 26 febbraio cinquemila ricercatori e giornalisti scientifici russi (85 dei quali membri dell’Accademia russa delle scienze, la massima associazione del paese) hanno infatti scritto una lettera per dichiarare la loro “forte opposizione all’ostilità lanciate dalla Russia contro il popolo ucraino”, sottolineando l’assenza totale di qualunque giustificazione per la guerra.
Le posizioni si sono subito divise tra di chi sostiene l’interruzione immediata di qualunque forma di collaborazione scientifica con i russi e chi invece pone l’accento sulla necessità della neutralità e del sostegno ai molti ricercatori che si sono opposti a Putin.
Partiamo dai boicottaggi di questi giorni: il German Research Foundation, organizzazione pubblica che finanzia progetti di ricerca, ha immediatamente congelato qualunque progetto di collaborazione con la Russia, anticipando decisioni analoghe prese da altri paesi nelle ore seguenti, tra i quali la revisione avviata dalla Gran Bretagna su tutti progetti di cooperazione esistenti e futuri, e la rinuncia ad almeno due missioni da parte dell’Agenzia Spaziale Europea.
Alcuni giovani ricercatori ucraini riuniti nel Consiglio dei giovani scienziati del Ministero dell’istruzione e della scienza, hanno scritto all’Unione Europea chiedendo l’esclusione della Russia da tutti i finanziamenti europei per la ricerca e l’espulsione del paese dallo European Research Council e da altre istituzioni, oltre che da programmi come il progetto internazionale ITER per la fusione nucleare, in corso in uno stabilimento vicino a Grenoble (considerato il progetto scientifico più costoso mai lanciato, cui la Russia contribuisce per il 6% del budget, e al quale partecipano anche India, Cina, Giappone e Stati Uniti). L’Europa ha reagito pochi giorni dopo, anche se le collaborazioni costruite negli anni sono oggetti assai complessi da smontare, e non sempre fermarli è possibile o auspicabile. Nel comunicato ufficiale la Commissione ha comunque annunciato la sospensione di Horizon Europe, da cui la Russia aveva ricavato 14 milioni di euro per 138 progetti, 74 dei quali ancora in pineo svolgimento. Ma il danno principale è forse quello dello stop al finanziamento per la realizzazione di nove infrastrutture, in un progetto che che avrebbe dovuto consentire alla scienza russa di compiere un balzo in avanti nella cooperazione scientifica con l’Europa grazie al cosiddetto CREMLINplus (Connecting Russian and European Measures for Large-scale Research Infrastructures) che doveva continuare fino al 2024, con investimenti complessivi, da parte di Horizon, per 25 milioni di euro.
L’idea era nata dopo l’esperienza di Skoltech, un’università privata fondata nel 2011 a Mosca grazie alla collaborazione con il MIT di Boston. Il quale, dal canto suo, ha subito annunciato, attraverso il suo presidente Rafael Reif (i cui genitori fuggirono da una regione tra Ucraina e Moldavia all’inizio della seconda guerra mondiale), la decisione di interrompere qualunque partnership scientifica, anche perché allo Skolkovo (questo il nome russo dell’ateneo) si lavora, tra l’altro, su argomenti sensibili quali la medicina rigenerativa, e perché lì ha sede il computer (teoricamente non militare) più potente della Russia, Zhores.
Il caso dello Skoltech è emblematico della stasi scientifica portata dalla guerra e dalle sanzioni: un centro diventato in pochissimi anni un riferimento per tutta la Russia, un luogo di incontro per centinaia di studenti e ricercatori provenienti dai più diversi paesi, nel quale sono stati investiti molti soldi e dal quale è arrivata una produzione scientifica di livello crescente, sempre più in linea con gli standard internazionali quanto a metodologia di lavoro, con ogni probabilità si avvia ora a un rapido declino (e all’irrilevanza scientifica che caratterizza la “scienza autarchica”). Si avvia cioè a diventare qualcosa che, con ogni probabilità, nella migliore delle ipotesi assumerà i tratti di un istituto diventato noto a causa della pandemia: il Gamaleya di Mosca per lo studio delle malattie infettive.
Da lì è infatti arrivato il vaccino Sputnik V, mai riconosciuto in Occidente non perché basato su un approccio non valido (è un vaccino quasi identico a quello di AstraZeneca, con due vettori virali), ma perché i dati relativi alle sperimentazioni cliniche non sono mai stati pubblicati sulle normali riviste: sono stati sempre e solo annunciati trionfalmente sul sito dell’istituto, in una specie di dialogo solipsistico da propaganda che nella scienza si fa ancora più surreale, proprio perché la buona ricerca si basa sulla trasparenza, sulla condivisione e sulla riproducibilità dei dati. Non è un caso se i russi, per primi, non si sono fidati. La stessa OMS, che stava controllando i dati per capire se inserire o meno Sputnik V nel programma COVAX per la vaccinazione dei paesi più poveri, ha interrotto qualunque valutazione. D’altro canto, è evidente che nessun ricercatore dei paesi che si oppongono all’invasione russa potrebbe continuare a collaborare con centri che lavorano su agenti patogeni o su sostanze chimiche e materiali biologici potenzialmente pericolosi.
In molti casi è complicato troncare rapporti costruiti per decenni, magari su grandi progetti che coinvolgono centinaia di ricercatori, e budget a sei-sette zeri.
Adesso centri come lo Skoltech si incamminano nello stesso vicolo cieco del Gamaleya, in compagnia delle oltre 200 università russe che si sono dichiarate pienamente d’accordo con le decisioni di Putin in una lettera postata sul sito dell’Unione russa dei rettori il 4 marzo, in cui si ribadisce quanto sia importante e doveroso sostenere la guerra per difendere la madrepatria. La lettera ha già provocato l’espulsione delle prime 12 università dalla European University Association, mentre Germania, Danimarca, Lituania, Norvegia e Olanda hanno fatto di più, bloccando qualunque tipo di collaborazione universitaria con gli omologhi centri russi. Anche le grandi manifestazioni internazionali stanno lasciando la Russia, come ha fatto quella della Fields Medal, il Nobel della matematica, che doveva essere assegnato nel prossimo mese di luglio a San Pietroburgo: si farà tutto on line.
Non sempre, però, come abbiamo anticipato, le posizioni sono così nette. Anche perché in molti casi è complicato troncare rapporti costruiti per decenni, magari su grandi progetti che coinvolgono centinaia di ricercatori, e budget a sei-sette zeri. Il CERN di Ginevra, per esempio, ha espresso una valutazione più cauta, al netto della condanna dell’aggressione, perché ha annunciato di aver sospeso la Russia dal suo status di osservatore, di aver bloccato i progetti futuri, di aderire alle sanzioni ma, anche, di voler continuare a supportare i ricercatori russi che si oppongono a Putin e di voler mandare avanti i progetti in corso che prevedono una collaborazione con la comunità scientifica russa, senza espellere gli oltre mille fisici russi che lavorano con Ginevra da laboratori di tutto il mondo.
Come il CERN, anche altri centri di ricerca hanno posto l’accento sulla necessità di preservare la neutralità e di aiutare la parte non certo residuale di scienziati russi che si oppongono al regime e alla guerra. Tra questi, secondo un resoconto di Science, l’Unione Astronomica Internazionale – che ha esplicitamente respinto la richiesta ucraina di escludere i colleghi russi da qualunque attività, sottolineando che l’associazione è nata proprio per unire paesi attraverso la scienza – e i responsabili del già citato ITER, progetto internazionale che si propone di realizzare un reattore a fusione nucleare sperimentale; posizioni aspramente criticate da Anatoly Zagorodny, presidente dell’Accademia nazionale delle scienze dell’Ucraina.
Decisioni di questo tipo si fanno ancora più complesse in progetti quali la Stazione Spaziale Internazionale o come le spedizioni di russi e americani per studiare gli ecosistemi dei ghiacci, tra cui quella dello U.S. National Oceanic and Atmospheric Administration che si sarebbe dovuta avvalere della nave russa Tinro per studiare i salmoni nel Pacifico settentrionale.
Per quanto riguarda le riviste scientifiche, invece, tutte hanno deciso di continuare a prendere in considerazione i manoscritti che arrivano dalla Russia, talvolta con procedure di revisione specifiche. Il perché lo spiega Nature: “in questo momento pensiamo che boicottare i lavori russi sia più dannoso che utile, che contribuisca solo a dividere la scienza e a restringere lo scambio di conoscenza, cioè, in definitiva, a danneggiare sia l’umanità che il pianeta”. Dietro tale approccio c’è il fatto che i lavori sono comunque valutati da comitati internazionali, e c’è l’idea che sia meglio continuare a sapere su che cosa si fa ricerca in Russia (per quanto attraverso filtri di una censura che, con ogni probabilità, non potrà che serrare ulteriormente la morsa). Al contempo, si possono così continuare a sostenere i ricercatori che cercano di lavorare pur non appoggiando Putin, in previsione di un futuro nel quale si auspica un ritorno alla collaborazione. Per ora solo il Journal of Molecular Structure, unico del gruppo Elsevier (lo stesso di Lancet, uno dei più grandi al mondo del settore), ha dichiarato che non accetterà più manoscritti provenienti da ricercatori che lavorano in Russia.
Le ferite inferte alla scienza ucraina e russa e, di conseguenza, a quella mondiale, non si rimargineranno né presto né facilmente.
Questa oscillazione tra le posizioni non è un inedito: si ripresenta ogni volta che si determinano situazioni analoghe. Un esempio chiarissimo è quanto continua a verificarsi con Israele: ogni volta che la crisi con i palestinesi si infiamma, si fronteggiano appelli al boicottaggio totale da una parte della comunità scientifica internazionale, e iniziative per tenere la scienza fuori dai conflitti, preservando progetti e ricercatori dall’altra: è accaduto nel 2002, nel 2013, nel 2017, nel 2018, con inviti a disinvestire, oltreché a chiudere le partnership.
A Kharkiv, pochi giorni dopo la fuga di Vlaschenko e di nuovo il 10 marzo, è stato bombardato l’Istituto di fisica e tecnologia, il KIPT (Kharkiv Institute of Physics and Technology), fonato nel 1928 e in cui aveva lavorato il premio Nobel Lev Landau, insieme, tra gli altri, a Lev Shubnikov, lo scopritore della superconduttività del “II tipo”, giustiziato da Stalin nel 1937. In seguito all’occupazione nazista, il KIPT era diventato il centro di eccellenza per gli studi sull’atomica di Hitler per poi passare, dopo la guerra, alle ricerche sulla fusione nucleare, su cui stavano lavorando, fino all’alba di quello stesso giorno, oltre 400 scienziati: erano studi di fisica del plasma, su quella teorica e su quella nucleare, dal momento che l’istituto poteva contare su uno dei due reattori esistenti nel paese per la ricerca. Il reattore è stato danneggiato, anche se per fortuna non ci sarebbero pericoli di contaminazioni esterne. Ma le ferite inferte alla scienza ucraina e russa e, di conseguenza, a quella mondiale, non si rimargineranno né presto né facilmente.
Tratto da “La Tascabile” n. 264 del 25.3.22