Il liceo Villari, tra piazza Nazionale ed il Centro Direzionale, affonda le sue origini in una fusione con l'Istituto Settembrini, la prima Scuola Normale Maschile del Meridione alla metà circa dell'Ottocento.
La struttura e la collocazione non erano certo le più invitanti, e sembrava di entrare al mattino in una fabbrica dismessa, ma ben manutenuta, pulita, irrimediabilmente e penosamente oppressiva, nonostante alcune aule risultassero luminose e ben organizzate. Era faticoso arrivare; al mattino si correva nel trambusto di piazza Nazionale, tra fetori diversi e rumori assordanti. Arrivando da piazza Garibaldi, facevo lo slalom tra le bancarelle del mercatino, che creava un po' di distrazione allorché, adocchiando qualcosa di interessante, mi ripromettevo che ci sarei ripassata all'uscita da scuola.
Saluto Rossella Colombai, mia deliziosa amica, ed anche Raffaella, Carla, Gianfranco, Paola, Maria Rosaria, Maria Teresa, Saria, Maria...volti cari e figure di docenti eccellenti, preziosi ed invisibili come spesso accade.
Gli allievi modestissimi portavano con loro la più bella delle virtù: l'umiltà. Erano vulnerabili e troppo spesso penalizzati da storie familiari di miseria ed anche di emarginazione. Mi accoglievano con gioia, pronti a raccontare i loro problemi, ad affidarsi. Chiedevano alla scuola un' attenzione che spesso era loro negata. In cambio, erano disposti ad ogni sforzo per migliorare e crescere. Per la prima volta, accettai di tenere i corsi di recupero pomeridiani affrontando il disagio di trattenermi o rientrare a scuola di pomeriggio. Desideravo restare con loro quanto più tempo possibile. Presi l'abitudine di scrivere le mie lezioni, per sollevarli dalla fatica di prendere appunti e materializzarmi nei pomeriggi di studio. Scrivevo a mano, con bella e chiara grafia, in un tempo in cui Microsoft Word era una parola da venire.
Isacco Newton era seduto sotto un albero. Una mela gli cadde sulla testa e lui capì che la forza gravitazionale terrestre e quella celeste sono la stessa cosa.
La prima versione della famosa storia è quella dei frutti che cadevano da un albero del filosofo francese Voltaire quasi settanta anni dopo l'evento descritto. Voltaire si interessò del sistema di Newton e viaggiò in Inghilterra sperando di incontrare Newton stesso, ma scoprì che il grande uomo era morto da poco. Incontrò comunque la nipote di Newton e suo marito, John Conduitt, e numerosi vecchi soci di Newton. Partecipò al funerale.
Nella versione di Voltaire, Newton stava camminando nel suo giardino nella “campagna vicino Cambridge”, in cui si era ritirato nel 1666 a causa della peste, e la vista della caduta del frutto da un albero lo portò ad una profonda meditazione sulla gravità, e la legge dell'accelerazione galileiana.
John Conduitt, racconta che Newton in quell’anno si era allontanato da Cambridge a causa del contagio, ritirandosi nel Lincolnshire presso sua madre e, mentre stava meditando in un giardino, gli balenò nella mente che la stessa forza della gravità (che aveva fatto cadere a terra una mela dall’albero) non era limitata a una certa distanza dalla Terra, ma che questa forza poteva estendersi molto più lontano di quanto di solito si pensasse.
Isacco Newton non passeggiava, ma era seduto davanti ad una finestra della sua casa e vide una mela cadere da un albero. Racconta così questo episodio William Stukeley, uno scrittore suo contemporaneo, riferendo una conversazione avvenuta a Kensington, il 5 aprile 1726: Dopo cena andammo a bere un tè in giardino, sotto un melo, ed egli mi disse che era proprio in una situazione analoga quando, molto tempo addietro, la nozione di gravitazione gli era balenata nella mente. La cosa era stata originata dalla caduta di una mela mentre era seduto e stava riflettendo. Perché avviene che le mele cadono sempre perpendicolarmente a terra? Egli pensò tra sé e sé. Perché non cadono a zig zag o non vanno verso l'alto ma costantemente verso il centro della Terra? La ragione risiede certamente nell'attrazione della Terra. Ci deve essere una forza attrattiva nella materia.”
La Royal Society, la celebre società scientifica inglese di cui Newton fu presidente, rendendo disponibile per la prima volta la biografia di Newton scritta dal suo contemporaneo e amico William Stukeley conferma, in gran parte, la veridicità del celebre aneddoto. Certamente il frutto non gli piombò in testa, come raccontano i maestri agli scolari delle elementari. Di sicuro però lo scienziato si trovava nel giardino della sua casa di Woolsthorpe Manor, quando assistette al tonfo del frutto e si chiese: «Perché cade sempre verso il centro della terra e non trasversalmente o verso l’alto?». Da quella domanda fondamentale, elaborò poi la teoria secondo cui deve esistere un potere attrattivo universale, proprio di tutti i corpi dotati di massa, la cosiddetta forza di gravità. Lo stesso tipo di forza che attira i corpi verso il centro della Terra, e che governa i grandi moti astronomici dei corpi celesti. Dunque l’aneddoto della mela non è un'invenzione.
Dice Richard Hamblyn che la caduta della mela di Newton è una delle più grandi immagini che rimane nella storia della scienza (potremmo dire una leggenda didattica?). Secondo tale leggenda Newton era seduto nel giardino della casa della sua infanzia di Woolsthorpe nel 1666, quando si spaventò a causa della caduta di una mela da un albero. Dopo questo episodio, il matematico si domandò: "Perché cade sempre dritta e mai di fianco o obliqua?".
Priestley afferma che nelle sue opere Newton non menziona mai la caduta di una mela. Henry Pemberton, il giovane discepolo che lavorò a contatto con l'anziano Newton, parla dell'origine dei Principia senza menzionare mai una mela.
Newton non ha lasciato nulla di scritto sulla caduta della mela, o forse solo un appunto sulle sue riflessioni nel giardino a Woolsthorpe nell'anno della peste, e nessuno conferma la presenza di meli in quel giardino.
Nell'ambito delle scienze, della matematica e della filosofia il ruolo secondario dell'immaginazione rispetto alla costruzione logica è solo apparente, e tiene lontani gli adolescenti da saperi giudicati ardui o aridi. La creatività dei grandi scienziati ha preso la strada delle ipotesi delle teorie e delle interpretazioni attraverso linguaggi semplicemente paralleli. La storia della mela corrisponde ad una immagine creativa.
Chiedo alle mie allieve quale versione della suddetta storia preferiscano. Chiedo loro di scriverla. Dopo qualche protesta, decidiamo che la scriveremo a quattro otto sedici etc. mani.
La madre di Isacco Newton aveva una bella casa con un bel giardino. Poiché c'era la peste, Newton decise di trasferirvisi e lì, tra un tè ed una passeggiata, proseguiva i suoi studi. Gli piaceva guardare il paesaggio e amava la natura. Osservava tutto con grande interesse perché era convinto che per tutto c'è una spiegazione e che è forse colpa degli uomini se non sanno trovare le risposte. Inoltre non gli interessavano solo delle specifiche risposte scientifiche, ma si interrogava sulla vita dell''uomo e dell'universo. In tutti i giardini possono cadere dei frutti, e se si guarda per terra passeggiando viene naturale alzare la testa per individuare il ramo da cui sono caduti. Quando si alza la testa per vedere i rami degli alberi, però, si scorge il cielo, magari nuvolo o molto azzurro e il sole scende a formare chiazze dorate al suolo. (Le mele rosse illuminate dai raggi del sole diventano quasi magiche). Così Isacco alzò la testa e guardò il cielo. Grazie alla sua fantasia dottissima non lo vide come i comuni mortali, ma dentro ci vide la luna anche se era giorno, e i pianeti e le stelle e il loro gioioso movimento e il sole e tutto quello che la sua bella mente poteva concepire. Poi abbassò di nuovo lo sguardo e capì che era la stessa cosa. Una mela luminosa non è che un piccolo sole caduto nell'erba, quasi un messaggio inviato dal misterioso quanto onnipotente Creatore dell'universo.
Al Villari la scoperta più dolorosa fu che non tutti possono insegnare. Che forse prima di accedere al ruolo docente bisognerebbe valutare attitudini, inclinazioni ed interessi dell'individuo che si accinge a rilevare una responsabilità sociale così grande. Il docente deve avere consapevolezza di sé e delle proprie reazioni, autocontrollo, equilibrio, ed una buona dose di determinazione, se non di coraggio. Non si può insegnando fermarsi a considerare le proprie esigenze interiori. Sensibilità e capacità di lettura psicologica non sono qualità sufficienti a risolvere un rapporto pedagogico. Potremmo dire che le attitudini psichiche, ovvero attenzione, logica, intuito, praticità, creatività devono accompagnarsi ad una solida preparazione e alla capacità di assumere impegni al netto di gratificazioni di retribuzione - che non è naturalmente giusto - o d'immagine. La scuola è stata per troppi l'ultimo luogo dove sarebbero voluti sbarcare. L'interesse culturale non sostiene da solo l'insegnante: come a dire che se non basta amare la poesia per essere poeti non basta l'amore per la nostra disciplina a trasformarci in docenti. In un mondo dove si richiedono profili professionali sempre più diversificati, qualificati e specializzati, per fare il professore basta cadere in una scuola, ammesso che ancora sia possibile. Privati di prospettive di carriera e di guadagno, i docenti si inventano vite parallele o modificano i propri tratti professionali impegnandosi in improbabili fughe per soddisfare esigenze personali di vario genere. Osservo con stupore ancora oggi il livore profuso nell'attività didattica da molti colleghi anche e soprattutto giovani, che comprano a pacchi infelicità per sé e per i propri allievi, che non sanno ascoltare, correggere e valutare, e che tornano a casa svuotati di senso e di energia.
Non potevo non concordare con i miei allievi che le patologie psichiche sono rappresentate in misura concentrata nella scuola, quasi esaltate dalle relazioni, ed il mio sguardo cadeva impietoso sulla classe dirigente, che esprimeva il meglio, con le dovute eccezioni, di tali patologie. Finita la scuola, gli adolescenti se ne allontanavano con sollievo, disturbati per sempre nella capacità di acquisire saperi, oppure si gettavano a capofitto sulle discipline insegnate dal docente bravo, incapaci di valutare le proprie attitudini e la propria preparazione. Utilizzando con prudenza il registro dell'ironia cercavo di salvare me stessa e le mie classi dalla follia, inventando nell'aula un mondo diverso, pacifico, spegnendo antagonismi ad aggressività. L'acme si raggiungeva durante gli Esami di Stato, quando schizzati da una scuola ad un'altra i professori meno equilibrati riscoprivano vocazioni censorie divenendo giudici implacabili, e sentenziosamente si esibivano dinanzi ad un pubblico riottoso ed irritato, fino a che non sprofondavano, sfiniti, nella montagna di carte che dopo averli intimoriti ed angosciati li seppelliva come la terra sulla bara del morto.
Non si può che ammirare/ la tua capacità di capire/ ciò che è importante/ nella vita. Tu sai quando è/ il momento di parlare/ quando è quello di ascoltare/ e quando è quello/ di essere divertente./ E' davvero sorprendente/ come riesci a capovolgere/ anche le situazioni più difficili. (Auguri per Natale di Margherita e Nunzia).
Maria Colaizzo tratto da “La Scuola Marginale” Edizioni Millerighe - 2015