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Tra breve, a febbraio, comincerà il festival della canzone di Sanremo. Lucia s’interessava molto al festival di Sanremo un po’ perché era ed è tanto popolare, un po’ perché è lo specchio della società italiana. Non abbiamo nessuna competenza, noi della redazione, in merito. Ad alcune/i di noi piace, ad altre/i risulta insopportabile. Non vi è da dubitare che, nel nostro bel paese, si seguirà con maggiore partecipazione il festival di Sanremo che l’elezione del Presidente della Repubblica. 

Tra i tanti articoli sul festival, pubblicati in questi giorni, su quotidiani, settimanali, cartacei o online, abbiamo trovato molto interessante, proprio per comprendere i cambiamenti di costume del festival (e dell’Italia anni 20 del duemila?) il pezzo che segue, ripreso da Valigia Blu.  (NdR) 

 

Drusilla Foer a Sanremo

di Chiara Zanini (tratto da Valigia Blu del 17.1.22)

 

Il Festival di Sanremo rimane per gli italiani e le italiane un appuntamento irrinunciabile, indipendentemente dalla scelta di guardarlo o meno dall’inizio alla fine. Le sue interminabili dirette mettono alla prova anche i critici televisivi di lungo corso. Una volta conclusa ogni serata il palinsesto prosegue fino a notte fonda con il Dopofestival e l’intera programmazione messa in campo dalla Rai è asservita al festival e costruita affinché se ne parli, al di là della qualità delle canzoni e del percorso professionale di cantanti, autori, musicisti, presentatori.

Guardare Sanremo può diventare così un pretesto per esprimere giudizi lapidari e caustici che non riguardano solo le interpretazioni musicali, ma investono la capacità della televisione pubblica di offrire un varietà, di affrontare con delle gag questioni spinose al centro del dibattito politico e di intercettare nuove tendenze, come di recente è stato con artisti da record quali Måneskin e Mahmood. Naturalmente il direttore artistico Amadeus deve condividere per contratto le sue scelte editoriali con la direzione di Rai 1, e le scelte sono poi annunciate in conferenze stampa o tramite anticipazioni, per generare attesa. È qui che arriviamo al primo oggetto di contesa a favor di pubblico dell’edizione di quest’anno, che inizierà il 1 febbraio.

Amadeus, per rispondere alle critiche di chi lamenta una scarsa presenza in televisione delle donne, spesso relegate in ruoli minori, ancillari o rassicuranti, ha annunciato al TG1 che le serate saranno da lui condotte insieme a “cinque figure femminili”, una per ogni puntata (annuncio a sua volta preceduto da un’anticipazione). Si tratterà di Ornella Muti, Lorena Cesarini, Drusilla Foer, Maria Chiara Giannetta e Sabrina Ferilli. Apriti cielo, perché per quanto unite dall’esperienza nella recitazione, non per tutte il pubblico ha accettato l’etichetta generica di “figura femminile”. Drusilla Foer, infatti, non è registrata all’anagrafe come donna. Ha scelto un nome che richiama il femminile e i materiali stampa dei suoi spettacoli declinano i suoi talenti con lo stesso criterio (carismatica icona di stile, cantante e attrice), ma non è una donna biologica, cisgender, cioè una persona che riconosce corrispondenza tra la propria identità di genere e il proprio sesso biologico. E non è nemmeno transgender. Drusilla Foer è infatti il nome con cui l’artista toscano Gianluca Gori si presenta al pubblico. Ha all’attivo molto teatro, il film Magnifica presenza di Ferzan Özpetek, è stata giudice a Strafactor (lo speciale di X Factor) e ospite al Maurizio Costanzo Show.

Il tenore delle polemiche, tra media tradizionali e social, è stato perlopiù all’insegna del binarismo rigidissimo, sebbene da sempre il genere umano sia attraversato dal concetto di fluidità. Abbiamo assistito così al ricorso a “travestito” usato come etichettatura dispregiativa dai soliti politici a caccia di consenso. Qua e là abbiamo scorto anche un certo canovaccio che ruota attorno al concetto secondo cui non va bene dare il posto di una donna a un uomo, perché accade continuamente, toglie spazio, fino a commenti come “Non mi piace il suo racconto satirico, è una donna che esiste solo nella fantasia di una parte del mondo gay”.

Tuttavia, prima di ogni valutazione o polemica a riguardo, quella su Drusilla Foer appare una disputa che manca il bersaglio. Innanzitutto non risulta a oggi si sia trattato di un’autocandidatura di Gori o di un’imposizione dei “poteri forti”, ma di una scelta da parte della direzione artistica. Se volessimo accogliere l’obiezione secondo cui l’attenzione va posta sul fatto che Foer non è una donna, rimarrebbero comunque quattro conduttrici, tra cui Lorena Cesarini, attrice afrodiscendente nata a Dakar, in Senegal, a rompere per qualche ora una tradizione che più bianca non si può. Una decisione, quella sulle conduttrici, che considerando anche le polemiche dell’anno scorso potrebbe far gridare al pinkwashing. Ossia la postura di chi si rivolge alle donne come target del proprio messaggio, ma facendolo con ipocrisia, come operazione di facciata.

Ma poi l’attenzione torna sempre su Foer e al nome registrato all’anagrafe. Foer però non si prende gioco di nessuno: dietro quel nome c’è un artista che pratica crossdressing gender bending, come molti altri in passato e ancora oggi. Fare crossdressing significa infatti vestire in modo opposto a quello tradizionalmente in uso per il proprio genere. Di esempi in questo senso se ne trovano in tutte le arti, già a partire dalle tragedie greche, e contrariamente a quanto alcuni potrebbero pensare non ci sono regole per cui questo modo di presentarsi debba essere assunto solo da persone non eterosessuali. Nell’Odissea ad esempio c’è Atena, che spesso agisce vestita con abiti tradizionalmente maschili. In tempi più recenti il cinema ci ha donato Robin Williams in Mrs Doubtfire e prima ancora ci sono stati classici come A qualcuno piace caldo e Victor Victoria. Dunque c’è chi il crossdressing lo sceglie per sé intravedendo una necessità e chi invece semplicemente perché farlo lo mette a proprio agio.

Drusilla Foer pratica inoltre il gender bending, ossia si veste e si comporta come ci si aspetterebbe dal genere opposto a quello di nascita. Gori è nato uomo, ma nella finzione scenica interpreta una donna (o comunque non un uomo), come a volte hanno fatto - finzione o meno - numerosi artisti con un ruolo di primo piano, come David Bowie, Boy George, Grace Jones, Annie Lennox, Tilda Swinton o i protagonisti di Rocky Horror Picture Show. Per quanto in molti casi si tratti di persone che si definiscono queer, questo non avviene rigorosamente. Cate Blanchett ad esempio ha interpretato Bob Dylan nel film Io non sono qui di Todd Haynes, e non per questo ha smesso di essere considerata un’icona della femminilità o ha scatenato l’ira del cantautore, che prima di allora non aveva mai approvato totalmente altri tentativi di omaggiarlo con ricostruzioni biografiche.

Ma la definizione che più spesso troviamo di Drusilla Foer è quella di attore o attrice en travesti, espressione utilizzata per descrivere un personaggio che in un’opera lirica viene interpretato da un cantante con cui non condivide l’identità di genere. Dal Seicento in avanti questa pratica ricorre in opere di Verdi, Bellini, Mozart, Donizetti, Mozart, Strauss e Wagner, perciò molto vista anche dal pubblico italiano. RuPaul, Copi, Paolo Poli, la signora Coriandoli (Maurizio Ferrini) sono esempi più recenti, anche se negli ultimi decenni si è utilizzato maggiormente il termine drag queen e drag king. Ed esistono anche in Italia laboratori per sperimentarsi gradualmente in questa condizione, pensandosi nel genere opposto, che vengono osservati dal mondo accademico anche in Italia. Sono condotti sia da professionisti del mondo del teatro, sia da attiviste e attiviste che di professione fanno tutt'altro. L'obiettivo è misurarsi con le credenze assimilate rispetto al genere attribuito alla nascita I laboratori si tengono in spazi privati e prevedono una fase pubblica, in cui le persone partecipanti performano il genere scelto in un luogo aperto, per poi ragionare in gruppo delle reazioni raccolte e della percezione di sé che si ricava agendo un genere che non avevano ancora sperimentato sul proprio corpo. E Drusilla a Sanremo agirà - come sempre fa - una finzione, senza per questo silenziare alcuna donna, volontà che casomai dovrebbe essere inquadrata in altri ambiti e ordini di grandezza. Certo, Drusilla dovrà trovare in Amadeus e in eventuali altri intrattenitori o intrattenitrici una valida interlocuzione, ma il 2022, con a mente gli esempi qui citati, dovrebbe ormai essere un buon momento per portare nel mainstream, in diretta sulla prima rete nazionale, una riflessione a riguardo. E determinate battute sull’espressione di genere e altri aspetti dell’identità potranno grazie a Drusilla essere più facilmente accettate dall’italiano medio, che magari avverte come distanti i monologhi carichi di pathos visti nelle edizioni precedenti.

Del resto, la recente discussione del Ddl Zan (la legge in materia di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere) ha confermato che in Italia i concetti di identità di genere e orientamento sessuale sono ancora misteriosi per molti, ma non abbastanza per evitare di esprimere giudici omolesbobitransfobici. Questa prospettiva sembra preoccupare maggiormente chi, senza avanzare alcuna richiesta precisa, insiste che al posto di Foer ci sarebbe dovuta essere una donna biologica. Per capire quanto la scelta di Drusilla Foer tocchi nervi più scoperti di quanto non sembri, immaginiamo di non aver letto le ultime novità sul festival di Sanremo e di fare invece un giro sui social network, osservando quali fatti negli ultimi giorni hanno destato più preoccupazione rispetto all’ossessione eteronormativa. Si discute della candidatura di Silvio Berlusconi a presidente della Repubblica, nonostante l’evidente problematicità che accompagna la sua figura. Contemporaneamente, un sindacato di polizia, il SAP, ha inviato una lettera al capo della Polizia Lamberto Giannini per informarlo che rifiuterà di utilizzare le mascherine FFP2 fornite alle questure perché di colore rosa, sgradito agli agenti. Sempre in questi giorni, un articolo di Repubblica sulle violenze di gruppo avvenute a Capodanno porta come titolo “Abusi di Capodanno: quei manovali di periferia a caccia di una notte da padroni” (i manovali sono poi diventati semplicemente ‘giovani’ con una facile rettifica on line, non dichiarata). Della scomparsa della fotografa Chiara Samugheo, che ha ritratto grandi personalità del Novecento, si trovano invece poche tracce.

In un contesto come quello attuale, quindi, la critica a Drusilla Foer per buona parte sembra arrivare da chi non accetta di sentirsi minacciato da ciò che non si vuole conoscere, o non vuole a nessun titolo sentirsene sfiorato, nemmeno per gioco. Certo, il festival della città dei fiori è un prodotto destinato a milioni di persone e pertanto i messaggi che veicola possono essere terra terra, dirompenti, problematici e oggetto di continue riflessioni. Dall’altro lato non si può pretendere che la pedagogia di un’intera nazione sia affidata a un prodotto per le masse che nasce per promuovere la musica leggera e si fa varietà per una settimana. Chi cerca risposte definitive o interventi illuminanti di intellettuali da seguire dovrebbe guardare altrove. La tv e i media tutti in Italia dovrebbero, da parte loro, intraprendere azioni concrete per raggiungere l’obiettivo della parità di genere e della diversity intesa come rappresentazione veritiera delle varie identità che compongono il paese, senza restituirlo appiattito da una narrazione normalizzante ed escludente. Qualsiasi programma della tv pubblica dovrebbe oggi imporsi una linea editoriale volta al progresso culturale, accompagnandone l’evoluzione. E se questo non succederà sul palco del teatro Ariston non sarà certo per aver avuto per qualche ora Drusilla Foer in diretta.