Era giunto anche per quell’anno il 24 dicembre. La città era avvolta da un freddo pungente, a tratti ventilato. Il vulcano si profilava dolcemente innevato, snaturato e reso quasi mansueto dal candore, ed i lineamenti del paesaggio costiero, come da tempo non si vedeva, risaltavano nell’aria tersa leggibili fin nel più minuto dettaglio. La prof. uscì di casa decisa a conquistare il suo Natale. Giunto da poco, secondo il calendario scolastico. Sola da tempo, non più giovane, ma ancora vitale e piacente, aveva rifiutato l’invito di qualche amica affezionata a trascorrere la vigilia in compagnia. Desiderava un Natale privato, speciale, con un senso diverso da quello che si consumava nelle famiglie comuni, tra tavole imbandite ed alberi addobbati. Dapprima la assorbirono le vetrine dei negozi, invitanti. Oggetti ben esposti e luci colorate attrassero la sua attenzione. Ella non era ricca, anzi quasi povera come tutti gli insegnanti e sapeva rinunciare ad acquisti impegnativi. D'altronde non era quello il senso che desiderava dare al suo Natale. Aveva augurato ai suoi allievi serenità in famiglia, serate piacevoli con i libri provvisoriamente chiusi sulle scrivanie, pensieri e progetti di pace. Le compere potevano aspettare, come pure qualche ghiottoneria invernale, di cui peraltro non si era, fino ad allora, privata. La strada brulicava di persone. Ognuno col suo da fare, le borse sotto al braccio, l’aria affannata. Voci e rumori volteggiavano incessanti, qualche richiamo, i rombi delle moto. Dietro il mercatino rionale la parrocchia, adiacente alla sua abitazione, si preparava alla messa di mezzanotte. Sbirciò attraverso le porte a vetri, alte. Si addobbava l’altare per la cerimonia, si davano ritocchi al presepe. Pensò al Bambino. Un bambino avvolto in fasce, addormentato in una mangiatoia. Avrà dormito ben poco – pensò – con tutta la confusione che la sua nascita aveva scatenato. Pastori, venditori, buone donne, lavandaie, frati e soldati, zampogne. A seguire, i Magi. Per non parlare del puzzo dell’asino e del bue. Meglio restarsene al petto di Maria, nel caldo silenzio del suo latte, che sotto gli squilli delle trombe angeliche. Sorrise. Lei un bambino non l’aveva, e nemmeno aveva avuto il tempo di desiderarlo. Il suo matrimonio era durato pochissimo, giusto il tempo che il marito aveva impiegato a trovare un’altra donna, meno ingenua e noiosa di lei. Lei non gli aveva mai portato rancore, per questo, quasi a dargli ragione. Gli aveva anzi scritto una lettera, il cui contenuto era il seguente: “Mio caro, ti scrivo fingendo che tu sia il mio amico e il mio vecchio amore e, invece, non sia il più folle egoista che io abbia mai conosciuto. Fingendo che nel fondo del tuo cuore ci sia dell’affetto per me e non il solito vecchio calcolo, che piega gli altri a strumento del tuo volere e supporto delle tue nevrosi. Sapessi quante volte mi sono fermata a frugarti, per scoprire l’umanità di cui ti riempi la bocca. Ho desiderato con tutte le mie forze che tu fossi per me rifugio e salvezza dal dolore della vita, ma devo arrendermi alla realtà. Quanto ho atteso, che ti accorgessi delle mie delusioni e della mia solitudine! Quanto ho sperato che, finalmente, capissi la mia mitezza e la mia onestà! Come sempre, sono stata dissennata e imprudente. Non hai perso l’occasione di umiliarmi ed offendermi, per ricoprire il tuo ruolo preferito, quello del grande incompreso, vittima dell’insensibilità e della rozzezza del volgo. Sono svuotata fino all’estremo. Non riuscirò più ad amare. E forse nemmeno a dirti veramente addio, stupida come sono!" Poi, per fortuna, la scuola aveva riempito le sue giornate e le lezioni l'avevano impegnata fino allo stordimento. Le mattine erano trascorse senza troppi ripensamenti, talvolta allegramente. I suoi numerosi alunni erano rumorosi e gioviali, specialmente i maschi. Le volevano bene.
Giacinta comprendeva subito il punto di vista dell’altro; al punto che dimenticava il suo. Bastava che qualcuno, chiunque, le esponesse la sua situazione, le confidasse una scelta, ed ecco che lei riconosceva che sì, era giusto così. Gli altri poi, dopo aver raccontato, ed essersi presi la soddisfazione dello sfogo e della comprensione, si allontanavano in fretta. Ma Giacinta non si sentiva sola; protetta dal buon senso, viveva semplicemente; egoista senza cattiveria, altruista senza slancio, non sapeva cosa fosse la passione, e lasciava ogni emozione a galleggiare nel liscio mare del cuore, senza dolersi se poi qualcuna lentamente affondava. Nel tempo libero, leggeva romanzi e biografie, si applicava a lavoretti domestici, curava la casa e l'abbigliamento trovando soluzioni graziosamente economiche.
Continuando la passeggiata, avvertì una deliziosa sensazione di libertà, che le procurava il tempo dilatato delle vacanze natalizie, la cui fine le appariva lontana. Col passare delle ore però un pensiero angoscioso si fece spazio nella mente. Che avrebbe fatto una volta rientrata a casa? Non poteva certo chiedere alla televisione o al PC di occupare una serata tanto importante. Nella galleria si allestiva una tavolata per i poveri. Un grande abete vi era stato collocato e splendeva di luci multicolori. Una cucina da campo di notevoli proporzioni spandeva calore e profumi. Molti lavoravano freneticamente, e alcuni mostravano in viso i segni della stanchezza. La prof. pensò che avrebbero accettato con piacere un aiuto imprevisto. Poi, mentre si avvicinava, due barboni presero a litigare per il posto che avrebbero occupato, al punto che bisognò tacitarli con una certa durezza. Questo spiacque a Giacinta, che si allontanò. Non si era chiesta per tempo quale fosse il suo Natale. Le massaie e le cuoche avevano la fatica dei fornelli; le signore borghesi la cura di raffinati preparativi; i bambini l’attesa dei doni; i sofferenti la loro disperazione, i solitari le loro amarezze. Giacinta non aveva nulla, se non l’ombra di qualche rimpianto. Teneva a bada i ricordi perché non l’importunassero troppo. Si trovò a passeggiare sul lungomare dove il vento più forte alzava onde spumose. In un anno che non ricordava, in un mese che invece ricordava bene, un aprile inoltrato, un ragazzo dagli occhi marroni le aveva, guardando il mare, comunicato la sua scelta di solitudine. Era un suo studente, in gita scolastica. Aveva approfittato di quel momento per confessarle la sua diversità, e quasi la rassicurava parlandole della sua aridità sentimentale, una aridità che si era autoimposto e procurato con costanti e dolorosi esercizi di autocontrollo. Se l'amore gli era negato insieme all'identità di maschio in cui tutti avevano bisogno di credere, l'unica scelta possibile era la rinuncia. Il volto e la voce di quel giovane le tornarono dal passato, da un anno scolastico anonimo e sepolto da tutti quelli che lo avevano seguito. Perché non se n'era occupata con maggiore cura? E che ne era stato di lui? Si sforzò di ricordare il nome e l'anno, e finalmente ci riuscì.
Era buio, era tardi, in nessun luogo c’era il suo Natale e la sera della vigilia cominciava ad apparirle come una trappola. Le strade si erano svuotate, i negozi si affrettavano a chiudere. Giacinta riparò il volto nella sciarpa, tornò a casa, consultò nevroticamente l'elenco telefonico. Al decimo tentativo ritrovò il suo allievo. Non dovevano essere trascorsi troppi anni. Non ci fu naturalmente alcuna conversazione, né poté sapere quale fosse la sua vita. Salutandola, però, il giovane la ringraziò e le promise che sarebbe passato a trovarla. Le parve anche di sentire, sussurrato, un grazie il cui tono amorevole non lasciava alcun dubbio. Spalancò il balcone, perché vi entrasse il Natale, e vi si affacciò. Una frase echeggiò nell’aria fredda; doveva provenire dagli altoparlanti di cui recentemente il parroco aveva dotato la chiesa: Gloria a Dio in cielo e pace in terra agli uomini che egli ama. Pace e amore risuonarono al di sopra degli strombazzamenti delle auto. Una frase echeggiò nuovamente. Poi gli angeli si allontanarono dai pastori e se ne tornarono in cielo. E che altro avrebbero potuto fare? si disse Giacinta; saranno scappati via a festeggiare il Bambino tra di loro, con canti e balli lassù, dove tutto ha un senso.
Tratto da: Maria Colaizzo - “La Scuola Marginale” - Edizioni Millerighe, Napoli 2015