Alessia Maccaro, dottore di ricerca in Scienze Filosofiche, esperta di questioni bioetiche, nonostante la sua giovane età, ha già acquisito notevoli esperienze internazionali. (NdR).
Ci racconti dove ti sei formata e dove si è realizzata la tua esperienza professionale?
Da tipica “maestrina” ho sempre amato sapere, trovavo entusiasmante sfidare le incomprensibili teorizzazioni dei pensatori più folli, e dunque geniali, che incontravo a scuola, intraprendendo interminabili querelles con la mia docente di filosofia. Il mio supponente amore di sapere si è, dunque, presto trasformato in amore per il sapere, filo-sofia, che mi ha portato in tempi brevissimi, senza difficoltà e con una media imbarazzante (con lode) a laurearmi, prima al corso triennale e poi a quello magistrale, con Menzione accademica della Commissione Giudicante, in Filosofia. Poi, però, e questo va detto proprio agli studenti che si affacciano al mondo universitario, il mio “amore” mai pago, ritenendo di avere ancora e sempre cose da sapere, voglia di approfondire, curiosità tipica del ricercare, ha incontrato i limiti di una facoltà umanistica del sud Italia, le ristrettezze del budget, e per ben due anni ho tentato invano l’accesso al Corso di Dottorato che metteva a disposizione solo due borse di ricerca (e c’erano sempre candidati più bravi di me, ma anche più grandi e più addentro nelle dinamiche accademiche). La mia “fame” era tale che ho tentato concorsi diversi, in discipline anche distanti: il mio amore era disposto ad aprirsi ad ogni sapere filosofico. E poi ci fu l’incontro con la bioetica. Devo premettere che sin dalla mia tesi triennale sull’ermeneutica del religioso, a quella magistrale sull’agostinismo (sapere non solo religioso…😉) di Blaise Pascal, agli approfondimenti sull’etica situazionale di Pietro Piovani e la fenomenologia delle culture di Ernst Cassirer, avevo dichiarato una predilezione per una certa filosofia morale contestualizzata, storica, che si dicesse disponibile all’ermeneutica dell’altro (e dell’Altro), dell’altrui cultura storica. Dunque, l’incontro con un Associazione Culturale – Sorridi Konou Konou Africa Onlus –di stampo umanitario che metteva al centro il prendersi cura dell’altro,nel senso che prevedeva missioni umanitarie di medici e operatori sociali in Bénin (Africa Subsahariana Occidentale), ma che si basava su dei principi etici per me assai condivisibili, ovvero non intendeva l’aiuto come un’elargizione imposta, ma previa considerazione della cultura ricevente, calibrava il suo intervento situazionale, fu per me come la conoscenza fisica del mio “amore”, la concretizzazione empirica dei miei ideali teorici. Nel 2016 mi unii ad una loro missione in Bénin e la mia vita cambiò, da quel momento per me non è più possibile approfondire, ricercare senza misurarmi con la controparte reale, empirica, storica; i miei studi hanno preso una più marcata curvatura interdisciplinare ed interculturale, mi sono appassionata alla bioetica e alle sue implicazioni riguardanti la cultura italiana e quella straniera. Ho avuto la fortuna di incontrare la prof. Emilia D’Antuono che mi ha accolto con fiducia nella cattedra di Filosofia Morale e nella famiglia del Seminario Permanente Etica Bioetica Cittadinanza che vanta illustri studiosi e che è così solido anche grazie al lavoro del prof. Gianluca Attademo e della prof.ssa Emilia Taglialatela. Finalmente, dopo due anni dalla laurea in Filosofia, ho deciso di provare il dottorato in Scienze filosofiche, curriculum di bioetica e… ce l’ho fatta! Il mio amore per il sapere adesso – anzi direi per adesso, perché in barba ai puristi io mi dico pronta a versioni (che siano diversioni, diversificazioni e non perversioni) della matrice di quell’amore principiale – ha imboccato una strada da percorrere.
Nel tuo libro “Con Grégoire Ahongbonon. Oltre il buio della Mente” – Mimesis Eterotopie 2019, racconti del lavoro svolto in Benin. Vuoi dirci dove nasce e come si è sviluppata l’esperienza che hai descritto nel libro?
Come ho accennato prima, l’incontro con l’Associazione Sorridi Konou Konou Africa Onlus è stato folgorante. Il suo presidente, il prof. Enrico Di Salvo e sua moglie la prof.ssa Bianca Gasparrini sono stati per me punti di riferimento imprescindibili: coraggiosi nel portare in un’esperienza così forte come una missione umanitaria in Bénin (Africa Occidentale Subsahariana) un elemento poco utile alla missione e anche troppo insicuro, ma abilissimi nel trovarmi presto un ruolo e dare così un senso a quell’esperienza che poi ho ripetuto per altre tre volte! Durante le diverse missioni il mio impegno e coinvolgimento sono cambiati molto: dapprima ho provato a conoscere la cultura locale beninese, in particolare riguardo all’aspetto dell’interpretazione della cura e della malattia intese dal punto di vista della tradizione “tribale”, con interviste fatte a chiunque incontrassi (dagli sciamani, ai medici locali, ai malati, ai ministri), ma la mia tensione e l’approccio ancora molto didascalico mi impedivano di andare oltre. Solo negli anni successivi ho lentamente ceduto al farmi attraversare dalle emozioni e ho conosciuto Grégoire Ahongbonon, un meccanico beninese. Quest’uomo ha avuto una vita incredibile, un passato da feticista quando era imprenditore nel settore di taxi che iniziò a rendergli moltissimo, fino alla completa bancarotta che lo portò sull’orlo del suicidio. Nel momento più “buio” della sua vita Gregoire ritrova – un po' come Agostino – la matrice materna del cattolicesimo che scompagina i suoi ideali e la sua vita che, da un singolare ed inatteso viaggio in Terra Santa, inizia ad essere orientata dai valori quali la solidarietà e la carità. Alla fine degli anni ’80 Gregoire fonda l’Associazione Saint Camille de Lellis, finalizzata ad offrire sostegno spirituale e materiale prima ai malati negli ospedali, poi ai vagabondi e fino all’incontro, sconvolgente, con i malati mentali.
Nel 6° capitolo del libro “La Speranza” viene riportato “Come mai si preferisce legare i malati (di mente) piuttosto che ucciderli”. A cosa si fa riferimento? È ancora possibile che si verifichino circostanze del genere in Africa (Benin)?
La tradizione culturale legata all’animismo vodun, ancora molto presente in Bénin, considera la malattia legata al “male”, inteso in senso sia fisico che spirituale, per il quale i rimedi farmacologici (sia moderni che tradizionali) non sempre risultano efficaci. In particolare la malattia mentale, essendo così inspiegabile dal punto di vista delle cause, viene ascritta all’universo spirituale: le persone affette da disturbi psichici sono considerate abitate da potenze maligne e demoniche (divinità oltraggiate, avi offesi); vengono chiamate sorciers (più o meno stregoni, nel senso di posseduti) e considerate contagiose nel senso biologico del termine. Si ritiene, infatti, che il contatto con loro possa causare la trasmissione della malattia mentale e del “male”/demone che in essa si cela, dal che derivano atteggiamenti di esclusione sociale fino a pratiche di contenimento come la prigionia con catene legate ad alberi o blocchi di cemento. In una società che, oltre ai convincimenti religiosi e cultuali, la condizione economica porta a ragionamenti di tipo utilitaristico l’elemento debole, viene eliminato, allontanato o neutralizzato, per la sopravvivenza del tutto. Nel caso dei malati mentali l’eliminazione porterebbe al trasferimento del male dal malato al suo assassino e nel caso dell’allontanamento non ci sarebbe garanzia efficace per la protezione del gruppo da eventuali ritorni in famiglia del malato e/o sue reazioni improvvise e pericolose, pertanto si ritiene che il contenimento sia la strategia di neutralizzazione più efficace.
Dunque la risposta è sì, purtroppo è ancora possibile, soprattutto nelle comunità tribali più legate alle credenze ataviche, che si verifichi l’incatenamento di un malato mentale e, peggio, ci sono molti che hanno fatto motivo di lucro di tale barbara ed inumana prassi. Durante una missione io e il fotografo Fabio Burrelli (molte sue foto sono presenti nel libro) una sera aspettavamo ansiosamente Gregoire per partire per il nord del Bénin dove è ancora molto frequente questa pratica brutale per documentare lo “slegamento” di un malato mentale, ma ci fu un biglietto ad aspettarci alla porta della nostra casa. Grégoire era stato chiamato di corsa perché il padre della persona incatenata, si rifiutava di affidarla alla Saint Camille, preferendo piuttosto mandarla in una setta dove presunti guaritori avrebbero potuto liberarla dal male (a suon di percosse e ingenti somme di denaro). Grégoire non poteva aspettare il nostro sonno ristoratore e partì nella notte.
A nostro avviso l’associazionismo, il no profit hanno contribuito notevolmente al funzionamento delle istituzioni pubbliche, ad esempio nei settori della sanità e dell’università. Cosa pensi al riguardo?
Ma senza dubbio, e se per noi (italiani) c’è stato un vantaggio, per i cosiddetti paesi a basso reddito questo beneficio è stato esponenziale. Si pensi al bene che fa un’Associazione come Sorridi Konou Konou Africa Onlus: si occupa di microcredito per attività commerciali a tasso zero, consentendo a piccoli gruppi, soprattutto di donne, di avviare il loro piccolo commercio o le loro piccole imprese (produzione di olio di palma, succhi di frutta), oltre a garantire l’istruzione per studenti meritevoli ed indigenti (attraverso il sovvenzionamento delle rette scolastiche, dei kit per lo studio) e, con l’adozione a distanza, anche una piccola assicurazione sanitaria e diaria alimentare.
Quali sono i tuoi interessi attuali e quali pensi possano essere gli ulteriori sviluppi del tuo lavoro di ricerca?
Al momento ho una Marie Curie Fellowship (parola pomposa con cui si indica una prestigiosa borsa post dottorato) presso l’Università di Warwick (nel Regno Unito) e collaboro con un gruppo di ingegneri biomedici incredibili, guidati dal prof. Leandro Pecchia che studia regolamenti europei e design di dispositivi medici per i paesi in via di sviluppo, affiché siano più resilienti, a basso costo e disponibili agevolmente. Cosa ci fa una bioeticista con loro? Ri-cerco le motivazioni! Scherzi a parte ci sono moltissime implicazioni etiche e politiche che si celano dietro l’ingegneria biomedica in generale ed in particolare dietro le regolamentazioni che si dicono universali e poi non lo sono perché ad esempio è inutile che le norme europee chiedano che un respiratore sia collocato in una sala chirurgica sterile al 99.9 % se in Africa c’è polvere ovunque e basta aprire la porta della sala chirurgica perché quella percentuale di sterilità scenda vertiginosamente. Bisognerebbe avere un approccio contestuale e stiamo lavorando affinché questa cosa risulti più evidente anche e soprattutto ai policy makers e ai designers di dispositivi medici. I miei colleghi sono geniali, pensate che hanno inventato dispositivi resilienti come delle app (in Africa ci sono molti smartphones) per diagnosticare dalla fotocamera del cellulare se un malato sta avendo un ictus o palloncini intrauterini per bloccare sanguinamenti postparto prodotti con preservativi. Io resto esterrefatta per le soluzioni geniali di questa parte pratica del loro lavoro e spero di continuare, sempre, ad imparare cose nuove e diverse, in virtù di quella matrice che mi anima che è l’amore per il sapere.