Il sud nelle sue tante storie si racconta da solo. Le relazioni che si stabiliscono tra i diversi soggetti autorizzano a credere che al sud si genera un diverso modo di leggere l’alterità. Profondo più che lontano, sfruttato più che in grado di regolare scambi, il sud fa fatica a ristabilire una sua credibilità. Per me che sono nata nelle zone interne della Campania, certe zone come l’Irpinia suscitano ancora oggi distanza e malinconia, una malinconia che evoca un desiderio di presenze, di luoghi.
Mi mancano i vincoli familiari domestici dell’ambiente paesano, la povertà materiale che costringeva tutti ad utilizzare anche la più piccola risorsa e a ridurre al minimo lo spreco.
Tra le donne che vivono in Irpinia è facile cogliere debolezze, conflitti, ma anche le piccole acrobazie mentali e materiali con cui si conciliano sconfitta e dignità. La fretta non le coglie, la luce ed il buio scandiscono il tempo. La velocità di percezione differisce e con essa la velocità di reazione ed il tempo con cui si realizza. Una realtà ancorata alla sua tradizione fatta di esperienze acquisite e consolidate.
La norma non viene mai sentita come esterna al soggetto, appare connaturata ad esso; nei suoi confronti non si è mai critici, anche se capita di violarla. La trasgressione assume un valore liberatorio proprio perché è attuata nei confronti di una legge che non è imposta dall’esterno; si trasgredisce qualcosa che è dentro di sé stessi che è connaturale; qualcosa che reca in sé i caratteri della sacralità ed alla sacralità si associa con il rito e con la festa. Un’attitudine religiosa, a volte soffocante, si mostra nelle feste e nei riti. Tradizione e modernità (qui non meno presenti che altrove) si mostrano con profana armonia. Un senso diffuso del religioso che unisce donne giovani e meno giovani, vestite ancora con il costume del paese o di nero oppure con jeans e maglietta. Religiosità dove, alla banda musicale ed ai fuochi d’artificio per la festa del santo protettore, si sposa la processione e le tante messe; dolore devozione e speranza, messe e preghiere affinché il raccolto sia buono ed abbondante; affinché dia, anche in questa come nelle altre stagioni, uva e grano per le loro tavole.
A Lioni, Calitri, Teora le donne mostrano che è la tradizione a farle sentire forti e capaci di segnare una differenza. Durante il terremoto del 1980 la loro generosità non subì nessun mutamento. A me che andai a Calitri per vedere quali danni il sisma aveva provocato, riempirono, prima di ripartire, la macchina di vino, farina, frutta; mentre tutt’intorno le macerie avevano preso il posto delle loro case. La regola era e rimase, anche dopo il terremoto, l’autorevolezza delle loro decisioni; decisioni ferme, indiscutibili.
Il distacco e quindi la serenità con cui guardano alle cose del mondo è per me una lezione indelebile. Da loro ho imparato che, per essere viva, la cultura deve sempre far ritorno alle proprie radici. Tornare nei propri territori.
Mi serve dunque ancora passeggiare vicino ai corsi d’acqua, ricordare filastrocche, attraversare villaggi e strade conosciute nell’infanzia.
Lucia Mastrodomenico
Tratto dalla rivista Madrigale – Trimestrale di Politica e Cultura delle Donne – gennaio 1992
Dalla seconda di copertina della rivista Madrigale
Madrigale: Termine musicale di origine incerta (ne è stata suggerita una derivazione da “mandriale/pastorale” oppure da “matriale” cioè nella lingua della madre). Due forme nettamente distinte tra loro: la prima fioriva nel secolo XIV, la seconda nel secolo XVI. Nella seconda accezione il madrigale nasce a quattro voci con prevalenza della voce superiore; nel 1550 tende a recuperare dignità di scrittura che fino allora era stata propria solo della musica sacra. Il numero delle voci sale a cinque o anche più. Verso la fine del secolo diviene cromatico, introduce molte note nere, colorate e quindi passaggi più rapidi, armoniosi, numerose dissonanze, talora aspre, per meglio esprimere sentimenti di dolore. Dalla fine del 500 ai primi decenni del 600 fiorì un altro tipo di Madrigale, detto rappresentativo, ma in realtà non destinato alle scene. Eseguito da pochi solisti che si sedevano a tavolino leggendo la propria parte su appositi libretti; eseguito per il piacere di chi cantava e dei pochi ascoltatori. Fu definita dai contemporanei “Musica Reservata”