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 Il tema della scuola è, al solito, di grande interesse ma ora, anche di particolare attualità. La redazione di Madrigale per Lucia è unanimemente schierata a favore di una scuola “in presenza”. È compito di chi è designato a prendere pubbliche decisioni, individuare le opportune soluzioni per rendere ciò possibile. In situazioni di pandemia vanno individuate soluzioni innovative che non devono coincidere con la sola “scuola da remoto”. Esistono certamente soluzioni intermedie tra la chiusura delle scuole (e, peggio ancora, delle università) ed il tempo pieno in presenza. Basta cercarle, condividerle e renderle attuabili.

Per continuare a parlare di scuola riprendiamo dunque la pubblicazione di alcuni pezzi del libro di Maria Colaizzo - “La Scuola Marginale” - Edizioni Millerighe, Napoli 2015; altri ne pubblicheremo a breve.  Ringraziamo Maria per la sua gentile concessione. (RL)

 

Il monumento funebre

 

L'architetto aveva gioito nell’accettare l’incarico. Nonostante avesse conquistato la cattedra, non avrebbe potuto realizzare le sue aspirazioni accontentandosi della professione di docente, e considerava la scuola una specie di rassicurante parcheggio, assolutamente provvisorio. Perciò, quando finalmente lo studio dove liberamente esercitava gli passò un cliente tutto suo, si gettò anima e corpo nel lavoro. L'aula svanì, i volti dei suoi allievi impallidirono.  Avrebbe accontentato il committente, un uomo generoso e forte, nobile nei propositi e costante nella volontà. Un monumento funebre per il padre, una tomba di famiglia, una cappella che custodisse la memoria dell’uomo precocemente mancato al giovane figlio, amato teneramente. Fece suo il desiderio di quel signore che l’onorava di una fiducia totale, al punto da mettergli tra le mani, insieme al denaro, la più ampia libertà di scelta. Di più, che lo delegava ad amare, come in una adozione ideale, il padre che troppo prematuramente gli era mancato. 

Il progetto fu sviluppato in tempi brevi, quasi febbrili. Un cubo di granito avrebbe preservato per l’eternità i resti mortali del pater, ospitandone in un cuore solidissimo le reliquie, per ricordarlo con severa eleganza ai visitatori del Cimitero monumentale. Trascurate le lezioni, il professore si trascinava a scuola in ritardo, e ascoltava distrattamente gli studenti che chiedevano o conferivano, attendendo con ansia il momento in cui la campanella lo avrebbe liberato da quell'ingombro.

Si gettarono le fondamenta del mausoleo, in un luogo non lontano dalla tomba disadorna che accoglieva il corpo del caro estinto. Le maestranze furono scelte dall’architetto Mozzi, con cura. Operai competenti, materiali di qualità. Egli stesso si recò al Cimitero per seguire i lavori. Mancò a qualche riunione, a scuola. Ai colleghi che affettuosamente gli chiedevano il motivo di tanta furia rispose evasivamente, quasi infastidito. Che senso poteva avere l'ordinario scolastico, che lo annoiava sempre più, di fronte alla potenza della creazione?

Qualcosa, tuttavia, non andava. Pareva all’architetto che la sua presenza disturbasse. Erano gli sguardi sfuggenti dei becchini, il silenzio dei giardinieri e degli inservienti, il modo guardingo con cui gli operai si studiavano tra loro. Gli stessi visitatori del Cimitero sembravano osservare con perplessità lo sviluppo dei lavori, e il personale delle pompe funebri che concludeva mestamente nei paraggi qualche funerale ostentava una sospetta indifferenza.

Leggendo sul volto del proprio insegnante una vaga preoccupazione, qualcuno degli studenti si fece coraggio e chiese al professore se tutto andasse bene. Ma l'architetto non rilevò l'affettuosa premura di quell'interessamento e non fornì alcuna risposta. Aveva altro per la testa.

Poi, accadde un fatto. Una discreta carica di esplosivo distrusse le fondamenta gettate. Di notte. L’architetto Mozzi capì, o gli parve di capire. In cuor suo maledisse il cimitero, la città e la commissione. Umilmente, rimise il progetto nelle mani del committente. Questi, con stupefacente semplicità, rinnovò l’impegno, confermò il lavoro, rilanciò l’architetto e tutto ripartì, con le stesse maestranze. Si replicò lo spettacolo, a distanza di qualche mese. Un nuovo scoppio, e tutto era da rifare. L’architetto ebbe paura.  A scuola, balbettò qualche improbabile scusa per giustificare il suo evidente stato d'ansia.  Le sue lezioni divenivano sempre più mediocri, anche scadenti. Eppureavrebbe voluto confidarsi con qualcuno...magari un allievo più grande, magari la collega che trascorreva di preferenza con lui l'intervallo.

Di lì a qualche giorno, la determinazione del carattere, la forza dell’amore e la potenza del denaro ebbero la meglio. Questa volta, la terza, i lavori proseguirono fino alla realizzazione del monumento. Che occupò lo spazio come meglio non avrebbe potuto, che acquistò senso e bellezza di giorno in giorno, fino al momento straordinario della traslazione. L’architetto lo aveva atteso con ansia. Allora solamente, quando il morto vi avesse preso dimora, il suo lavoro si sarebbe compiuto.  Aveva iniziato la sua professione costruendo una casa ben più importante di quella che i vivi desiderano per se stessi. Aveva costruito la casa per un’anima, una casa sacra, destinata all’eternità e  benedetta da Dio. Non si stupì quando il committente gli chiese di presenziare alla traslazione. Si stupì invece udendo che lui, il figlio, non avrebbe partecipato alla cerimonia. Emozione, paura, impegni di lavoro improrogabili… gli parve di capire che la libertà di cui aveva goduto prima e durante la realizzazione del mausoleo erano da porre in relazione con questa, poco confessabile, volontà di sottrarsi ad un preciso dovere: recuperare i resti mortali del padre, vederli, e collocarli nella nuova sede. Gli parve anche che il desiderio di onorare la memoria del genitore, che egli tanto aveva apprezzato, fosse uno scrupolo formale più che una esigenza profonda.

Gli fu offerta la compagnia di un cugino di secondo grado, per il giorno in cui il sacello doveva essere aperto ed il corpo recuperato.

Fu allora che, per caso, quasi involontariamente, il professore in aula si lasciò sfuggire qualche informazione sull'attività che tanto lo aveva impegnato. Si discusse in classe dell'importanza dei monumenti funebri, delle loro tipologie, della architettura dei cimiteri. Uno degli studenti, orfano da tempo, dichiarò che avrebbe voluto per suo padre una bella tomba, ma che la situazione economica della famiglia non era tale da consentirne l'acquisto, e che altri problemi ne avevano impedito la realizzazione. Spiaceva al ragazzo di non potersi recare a far visita al padre defunto, per conversare con lui e piangerlo ogni volta che lo desiderasse. L'architetto ascoltando il suo allievo, ma senza la dovuta attenzione, e senza rilevare la stranezza insita in quelle affermazioni, sentì crescere dentro di sé il disagio per la cerimonia ormai prossima. Tanto che invitò il suo studente ad accompagnarlo, col pretesto di mostrargli il monumento, ma in realtà per averne la compagnia. Venne il giorno della traslazione, un grigio pomeriggio di novembre.

 L’architetto ed il parente si tenevano a distanza, mentre il personale del Cimitero operava. Per pudore, e per orrore della morte, alla quale nessuno sfugge, i due uomini davano le spalle alla macabra cerimonia, mentre il giovane studente osservava senza timore e senza pudore le operazioni, certo reso impavido e più dolorosamente adulto dal lutto. L’architetto fissava il suo mausoleo, il cui vano attendeva i resti, per salvarli dall’anonimato nel quale comunemente giacevano. Fu allora che le voci dei becchini gli risuonarono contemporaneamente nel cuore e nel cervello. Quale prendere? Quale! Due scheletri, due teschi, due morti, due padri! Uno dei due, evidentemente, non era il padre. Un morto a caso, un morto senza nome; a quale titolo divideva lo spazio con l’estinto di famiglia, abbracciato a lui nello stesso loculo? La decisione fu presa dal cugino, e non senza perplessità. Anzi in uno stato di scarsa lucidità. Entrambi. I becchini ridussero i resti di due alle dimensioni di uno. Qualcosa fu gettato via, era di troppo. Nel nuovo sacello furono deposti due teschi. L’architetto ed il parente non guardarono, e neppure pensarono. Il ragazzo restò tristemente in silenzio. Conclusa l’operazione, l'architetto Mozzi prese la strada del ritorno fortemente turbato. Si vergognava di avere coinvolto l'adolescente in quella macabra avventura, per un atto di puro egoismo.  La sua mente vagava tra le congetture più perverse. Gli attacchi criminali subiti nei mesi precedenti erano da ricollegare a quel morto sconosciuto? C’erano delle ombre nel passato del nobiluomo? E che dire dello strano atteggiamento del figlio? Sperando di porre fine a quel tormento, invitò il suo allievo nel piccolo bar sotto casa, per una cioccolata calda.  Seduto al tavolino sprofondò in una squallida inerzia. Lo riscosse il giovane, che gli chiese se ricordava di un caso di cui avevano tanto parlato i giornali, qualche anno addietro. Il cadavere di un uomo, un piccolo malavitoso di quartiere, era scomparso dall’obitorio dell'ospedale nel quale aveva cessato di vivere per le ferite riportate in un agguato di camorra. Il figlio, andato con la madre e tutta la parentela per celebrare i funerali, non lo aveva trovato all'obitorio, né in alcun altro luogo dell'ospedale. Restavano di lui inutili cose, accanto al letto dove era spirato, come abbandonate. Le ricerche e le indagini erano proseguite per alcuni mesi, poi il caso era stato archiviato dalla questura. Il figlio, però, non si era dato pace, spargendo voci e fotografie, disperato di non trovare neppure un morto. Aveva finito con il convincersi che il cadavere del padre era stato usato per qualche macchinazione criminale. 

Ricordava di aver notato preoccupanti presenze nell’ospedale, facce torve di delinquenti, neppure tanto strane in una zona ad alta concentrazione malavitosa come quella in cui sorgeva il vecchio nosocomio. Era curiosa, la vita. Uno seppelliva due padri ed un altro non poteva piangerne neppure uno. 

L'architetto gli chiese quale relazione si potesse mai stabilire tra questo caso e la presenza di due corpi in una tomba, che cosa potesse avere unito nella morte un ricco borghese ed un comune delinquente, e perché fosse così informato su quell'orribile episodio. "Vede, professore -gli rispose il ragazzo- quel delinquente era mio padre. Non mi ha lasciato neppure un biglietto, un oggetto, un saluto. Della sua famiglia non si è occupato né da vivo né da morto. E Lei, professor Mozzi, lasci perdere i monumenti funebri, e si occupi di me e dei miei compagni, che sono vivi, ed hanno bisogno delle sue cure".