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Le conseguenze del virus: produzione e sopravvivenza


Riportiamo alcuni tratti dello scritto di Mario Barenghi, critico letterario, pubblicato su “doppio zero.com”, utile, a nostro avviso, alla comprensione di ciò che sta accadendo intorno in questi mesi. Speriamo lo sia anche per i nostri lettori. (NdR) 

Un anno fa, di questi tempi, imperversavano le rievocazioni del primo sbarco sulla Luna. Cinquant’anni dall’impresa dell’Apollo 11: i tre cosmonauti Armstrong, Aldrin e Collins, la notte della diretta, Ruggero Orlando e Tito Stagno, un piccolo passo per un uomo un grande balzo per l’umanità, eccetera. Dal 2019 al 2020 è cambiato tutto. Lungi dal celebrare le conquiste spaziali, ci troviamo ora a fare i conti con la riscoperta della nostra natura terrestre. Non solo perché la nostra sopravvivenza è ovviamente legata a ciò che accade sull’intero pianeta, ma perché abbiamo dovuto prendere atto del carattere intrinsecamente simbiotico della nostra condizione. La sorte di ogni individuo dipende dalla sorte dei suoi consimili: il singolo è parte della specie. Di più: la specie umana interagisce di continuo, in infinite maniere, con le altre specie viventi. D’improvviso ci siamo accorti che la nostra salute può dipendere dall’estinzione di specie animali e vegetali di cui non ci siamo mai curati, dal dissesto di ecosistemi lontanissimi dal luogo dove abitiamo, dalla deforestazione e dalla distruzione di habitat remoti nei quali mai avremmo messo né mai metteremo piede.
 Del resto, anche se di rado ci degniamo di farci caso, il nostro stesso corpo ospita miriadi di microorganismi, alcuni nocivi, moltissimi indispensabili alla stessa nostra fisiologia. 
L’hanno già detto in molti: con l’avvento del nuovo coronavirus ci siamo scoperti inopinatamente vulnerabili, come singoli, come società, come civiltà. È stato uno shock violento, che provocherà conseguenze durature. Non a caso, uno dei verbi che ricorrono più spesso nei discorsi orientati verso il prossimo futuro è «ripensare». Bisogna ripensare il nostro modello di sviluppo, la nostra idea di società, il nostro modo di vivere, il nostro rapporto con il tempo. Ripensare: cioè prendere attentamente in esame, ponderare di nuovo, e poi sottoporre a adeguata revisione. Bisogna riprendere le misure del nostro essere organismi terrestri, parte di una biosfera all’interno della quale nulla ci dovrebbe essere alieno. 
A questo proposito vorrei richiamare l’attenzione su una contraddizione, oggi più che mai patente, fra due principî di comportamento. Li chiamerò, per semplicità, logica della produzione e logica della sopravvivenza. Premetto che la semplificazione è piuttosto arbitraria: produrre serve a sopravvivere, e non si può sopravvivere senza produrre. Il problema è l’equilibrio fra le due istanze: grosso modo, fra le esigenze dell’economia e quelle della biologia. Ma intendiamoci: a rigore si potrebbe declinare l’antitesi sia in termini biologici, sia in termini economici. E il criterio distintivo potrebbe essere definito, all’interno di entrambi i campi, come grado di specializzazione, a sua volta messo in rapporto con il periodo breve, medio, lungo o lunghissimo. Ma non essendo io un biologo, né un economista, posso solo procedere per approssimazioni; giusto ricordando, en passant, che l’orizzonte comune a economia e biologia è quello che siamo soliti chiamare ecologia.
Secondo la logica produttivistica, occorre cercare di ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, utilizzando nel migliore dei modi le risorse disponibili. A questo principio obbedisce la produzione in serie, in tutte le sue forme. Si cerca qual è la soluzione migliore – la coltura più redditizia, la semente più produttiva, la soluzione tecnica più efficiente, il macchinario più performante, l’articolo più conforme alle richieste del mercato – e ad essa ci si attiene, escludendo ogni alternativa. Ottimizzare e omologare, ecco l’imperativo.  Applicazioni eloquenti sono quelle dell’industria che produce un solo tipo di utilitaria, dell’azienda agricola che coltiva un solo tipo di arance, dell’allevatore che opta per una e una sola varietà di bovino: ma anche dell’animale che si ciba di una cosa sola, come il simpatico quanto improvvido panda gigante con i germogli di bambù. 
 Alla logica produttivistica si oppone la logica della sopravvivenza. Nella logica della sopravvivenza prevalgono le variazioni, le diversificazioni, le soluzioni subottimali, comprensive di imperfezioni e residui, di ridondanze e di sprechi, di accumuli e di inerzie, di approssimazioni e di recuperi. A vincere, nella difficile partita dell’evoluzione, è la biodiversità. Non è un caso che esistano tante specie differenti di organismi vegetali e animali, e tante differenti varietà all’interno di ogni specie – fatta eccezione per quelle che sono sul punto di estinguersi, e per la nostra. (La scelta della congiunzione e, ovviamente, è scaramanzia allo stato puro). Come insegna Darwin, a sopravvivere è la forma più adatta: e l’adattamento dipende dal rapporto con un contesto che è sempre suscettibile di cambiare, anche in tempi rapidi e in maniera brusca. Dunque, più ricche e varie sono le potenzialità inespresse, più probabile è che si riesca a superare le crisi. Mutando i dati ambientali, caratteri genetici inizialmente privi di funzione possono risultare preziosi; un organo che adempie alla bell’e meglio a uno scopo può rispondere con efficacia a un’esigenza nuova; una specie che in un certo habitat vivacchia a stento può proliferare rigogliosamente in un altro, e viceversa. 
Detto altrimenti, mettere tutte le uova in un solo paniere è un grande rischio, se non si ha il pieno controllo della situazione (e noi, teste il Covid-19, siamo ben lungi dall’averlo). Un’economia fondata sulla monocultura può andare rapidamente in rovina, se cambiano le condizioni di mercato. Un Paese che punta su una sola risorsa – l’estrazione di petrolio, ad esempio – è intrinsecamente fragile. Non disporre di margini di flessibilità e di adattamento significa esporsi ad ogni possibile imprevisto. Ciò avviene sia nella produzione economica, sia nella riproduzione biologica. Le tartarughe marine depongono centinaia di uova; dei piccoli che nascono solo una piccola percentuale sopravvive, ma qualcuno ce la fa sempre. I mammut mettevano al mondo pochi cuccioli, poiché le probabilità che ciascuno diventasse adulto erano molto alte; poi comparve un nuovo predatore, uno strano bipede che cacciava in branco, e ruppe l’equilibrio. Non era in grado di sterminare i mammut, figuriamoci: i mammut, grandi o piccoli, erano prede eccezionali, il colpo riusciva solo una volta ogni tanto. Ma quel tanto bastò, nell’arco di pochi millenni, a sospingere la specie sulla china dell’estinzione.  
 Da parecchio tempo ormai sappiamo che sarebbe vitale preservare la biodiversità. Ma il nuovo coronavirus ha scavalcato le nozioni teoriche, e ci ha dimostrato con i fatti che il rischio è reale. Un nemico invisibile - su questo tema è intervenuto con acume Marco Belpoliti – può coglierci impreparati, e fare danni incalcolabili. Non necessariamente attraverso una strage diretta: è la destabilizzazione del sistema che può innescare un effetto domino. Peraltro, dobbiamo pur dircelo: ci è andata bene che a provocare questa pandemia sia stato un coronavirus, e non – come sottolinea qualche virologo – un tipo di virus più aggressivo. Il Covid-19, per quanto insidioso e maligno, è un parente dei virus del raffreddore: un bonaccione rispetto a, che so, quello che causa la rabbia. Conclusione: non dobbiamo sprecare l’avviso che ci è arrivato. Fino a ieri abbiamo lasciato che la logica produttivistica, che conosce solo i tempi brevi e i profitti immediati, avesse libero campo. D’ora in poi converrà cambiare registro.