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Il rischio buono


Nell’ultimo rapporto del Censis (cfr. “il Ventennio”-Madrigale per Lucia del 04/02/20) di analisi del ventennio 2000-2020 è rappresentato in maniere chiara come si sia delineata la cosiddetta“Società del rancore”, volendo con questa definizione rappresentare gli esiti della sfida di fatto mai realizzata della globalizzazione, ed un senso di incertezza che interessa la società e, in particolar modo, il ceto medio, destinato, di questo passo, a rarefarsi, determinando uno scompenso sociale con conseguenze poco prevedibili.
Cruciale è stata la crisi economica del 2007 (forse prevedibile?),  che ha evidenziato i limiti della finanza sull’economia, determinando danni reali a persone reali e minando la già traballante “cultura del rischio” la cui perdita si è rivelata quale “frutto avvelenato” della crisi. I ricercatori del Censis infatti discutono la possibilità di una ripresa della cultura della propensione al rischio quale unica spinta per il recupero di un welfare che è diventato nel tempo sempre più l’ombra sbiadita del caposaldo della società civile che fu. Probabilmente andrebbe promossa una gestione del rischio responsabile, sistematicamente legata alla società ed alla cultura; sono infatti proprio i rischi cosiddetti reputazionali ad avere un ruolo strategico; quei rischi che se non gestiti  generano danni derivanti da comportamenti non etici sia in termini di rispetto delle regole che di attenzione alla comunità ed all’ambiente. 
La propensione al rischio è d’altra parte alla base del progresso della civiltà umana; anche la costruzione di una famiglia e la messa al mondo di figli portano in se la cifra del rischio; direi a mio avvisoche gioca un ruolo non di poco conto per la promozione della cultura del rischio la mancanza sempre più vistosa della comunità reale di appartenenza. Non a caso la graduale sostituzione della comunità reale con quella virtuale rappresentata attraverso i social, nella illusione del perenne collegamento agli altri, ha prodotto un tale livello di alienazione dall’altro che difficilmente potrà essere recuperato; le communities hanno gradualmente corroso la comunità vera, quella costruita su relazioni incarnate, sottraendo alle persone il valore di uno sguardo o di un tocco della mano. 
Si rischia con la perdita della comunità reale la perdita della identità della comunità stessa condannando, spesso nella inconsapevolezza, le persone ad una sempre maggiore solitudine ed incertezza del futuro. La perdita delle relazioni reali sottrae, dunque, a quell’esercizio di  libertà nella relazione con l’altro che consente, nella irriducibilità di ciascuno di noi all’altro, la costruzione di un immaginario collettivo.

Maria Vittoria Montemurro