Sul finire degli anni ’90, subito dopo la
laurea, sbarcavo il lunario e mi facevo conoscere soprattutto sfruttando alcune
mie competenze nel campo informatico e tecnologico. Sapevo effettuare il
trattamento informatico di set di dati, avevo padronanza degli strumenti di
presentazione grafica, sfruttavo le opportunità (non ampie come oggi) offerte
da Internet e, non ultimo, avevo una discreta competenza hardware che mi
consentiva di risolvere i piccoli, ma fastidiosi problemi che affliggono quotidianamente
ogni ufficio pubblico o privato. Non si trattava di competenze estremamente
diffuse, soprattutto tra gli umanisti, e quindi vissi un periodo di piccoli, ma
significativi riconoscimenti.
Proprio allora, una mia cara amica, forse per
indicarmi una strada alternativa o forse perché già leggeva in me una velata
insofferenza per quel rapporto con la tecnologia, mi regalò un libro di Eric
Brende, dal titolo Meglio senza
(Ponte alle Grazie, Milano 2005), in cui l’autore, un ricercatore del M.I.T.,
narrava di una sua esperienza di vita della durata di poco più di un anno in un
villaggio amish, privo di energia elettrica (e relativi elettrodomestici),
senza mezzi di trasporto che non fossero a trazione animale e votato
all’autosussistenza. Sia l’avventura che la sua narrazione sono molto
affascinanti ed in questi giorni mi sono tornati spesso alla memoria dal
momento che, per varie ragioni, mi sento, molto più che negli anni ’90,
dipendente dalla tecnologia…e senza nemmeno l’entusiasmo del neolaureato.
Nel volume ad un certo punto, come in una sorta
di metanarrazione, Brende racconta di una sera dedicata alla lettura di un
libro che gli era sembrato più volte talmente ostico da doverlo abbandonare
dopo poche pagine (L’educazione di Henry
Adams, in cui è affrontata proprio l’infatuazione tecnologica degli
americani coevi dell’autore). Ebbene, nelle ore di riposo in quel villaggio
minimita, riesce finalmente a progredire nella lettura di quel testo e
condivide con il lettore la riflessione che segue.
«Questo era il segreto: per afferrare ciò che
intendeva dire, dovevi viverlo. Non soltanto i pensieri ma anche le varie
attività quotidiane, gli strumenti materiali con cui le si portava a termine
dovevano intrecciarsi in una tranquilla cadenza, in un’unità armoniosa.
E questo spiegava come mai il tempo scorresse
più lento e perché ne avessimo di più;
perché riuscissimo a rilassarci e a leggere come stavamo facendo in quel
momento: senza aggeggi troppo veloci, telefoni che squillavano, sveglie,
televisori, radio e auto, potevamo prenderci il nostro tempo. Quando è più
lento, il tempo è più capiente. Ciò che accade sta nell’attimo. Accelerando la
vita con la tecnologia, si riduce la capienza del singolo attimo. Rallentando,
la si espande.
Le scorciatoie finiscono per costringerci a
situazioni di emergenza con cui speriamo di riuscire a riappropriarci di ciò
che è stato eliminato, ad allungare ciò che è stato accorciato: utenti di
computer costretti in un loculo tutto il giorno fanno jogging intorno
all’edificio; burocrati e finanzieri o che hanno bruciato le tappe della
carriera fanno marcia indietro per non mancare a concerti scolastici, partite
di pallone e incontri tra genitori; prigionieri dell’ambiente tecnologico
fuggono per brevi weekend in montagna o al mare, in rustiche casette».
Ivo Grillo