Su
un lato del Palazzo delle Poste a Napoli, campeggia in caratteri cubitali una
scritta recante l’anno di inaugurazione dell’edificio: “Anno 1936 XIV E. Fascista”.
Chissà se qualcuno fa oggi ancora caso a quei numeri romani che accompagnano le
date del ventennio fascista, certo è che anche il fascismo, volle mettere mano al calendario. Lo fece istituendo
una propria era storica, iniziata il giorno dopo la marcia su Roma (il 29
ottobre 1922) e terminata con la caduta del regime (il 25 aprile 1943), sebbene
la dicitura “era fascista” continuò ad essere utilizzata fino all’aprile del
1945 nel territorio della Repubblica Sociale Italiana.
Ben
più incisivi furono gli interventi sull’organizzazione e la misura del tempo da
parte della Rivoluzione Francese (1789) e della Rivoluzione d’ottobre in Russia
(1917).
Nel
primo caso i rivoluzionari, guidati prevalentemente da spirito antimonarchico
ed anticlericale, riformarono il calendario stabilendo che l’anno fosse diviso
in 12 mesi di pari lunghezza (30 giorni), divisi in tre decadi, di otto giorni
e mezzo lavorativi ed uno e mezzo di riposo. Ai 360 giorni così distribuiti
erano aggiunti 5 (o 6 giorni negli anni bisestili) alla fine del ciclo annuale
(Giorno della Virtù, del Genio, del Lavoro, dell’Opinione, delle Ricompense,
della Rivoluzione). L’anno iniziava il 21 settembre ed i mesi furono denominati
in base ad elementi climatici o del ciclo agricolo: vendemmiaio, brumaio, frimaio, nevoso, piovoso, ventoso, germinale,
fiorile, pratile, messidoro, termidoro, fruttidoro.
Questo
calendario rimase in vigore in Francia e nei territori stranieri
filo-rivoluzionari dal 1792 (anno di proclamazione della Repubblica Francese) al
1805 e poi per un altro breve periodo durante la Comune di Parigi nel 1871.
Il
calendario rivoluzionario sovietico, pur condividendo l’anticlericalismo dei
francesi, fu molto più improntato a logiche di razionalizzazione del lavoro.
Già nel 1917, Lenin stabilì in Russia il passaggio dal calendario giuliano a
quello gregoriano, poi a partire dal 1 ottobre 1929, ne entrò in vigore una
versione razionalizzata.
L’anno
venne suddiviso in 12 mesi di pari durata (30 giorni) ed i restanti 5 o 6
giorni (negli anni bisestili), furono aggiunti come festività autonome. La
settimana passò da 7 a 5 giorni. Tutti i lavoratori, distinti in cinque
categorie contraddistinte da un colore, avevano uno specifico giorno festivo,
ottenendo così il duplice risultato di abolire la domenica (giorno di riposo
tradizionalmente religioso) e da evitare il blocco della produzione per
l’assenza di tutti i lavoratori in uno stesso giorno. Questa articolazione
settimanale si dimostrò tuttavia molto problematica, sia per la resistenza dei lavoratori
che per i mancati risultati in termini di aumento della produttività, ragion
per cui vennero adottate negli anni diverse soluzioni, fino al ripristino del
calendario ordinario nel 1940.
Non
ho conoscenza di altri calendari rivoluzionari, forse le restanti rivoluzioni
del XX e XXI secolo hanno smesso di giocare col tempo e si sono dedicate ad
altro, ad esempio a cambiare il nome dei Paesi (come è accaduto, ad esempio, in
Africa per molti Paesi ex colonie), ma questa è un’altra storia.
Ivo Grillo