Dentro il corpo di tutte le donne.
Luce Irigaray è una filosofa,
psicoanalista,
linguista
femminista belga,
ed è stata direttrice di ricerca al CNRS di Parigi.
Era molto amica di Lucia. Alle volte assistevo a
lunghe telefonate tra di loro che forse servivano per uno scambio d’idee, sulle teorie
femministe, primi anni 2000. Continuo a rovistare tra i libri, le carte, gli
articoli di giornale che Lucia conservava ed è una continua scoperta.
Ho pensato di pubblicare alcune delle carte
ritrovate, per continuare a riflettere e far riflettere, sulla sua ricerca, sul
suo pensiero. Recentemente ho trovato un foglio di giornale (La Repubblica –
martedì 29 novembre 2005) con un articolo di Luce Irigaray dal titolo “Dentro
il corpo di tutte le donne”, con alcune sottolineature che Lucia aveva
apportato.
Ho pensato di pubblicarlo ritenendo possa essere utile leggerlo a distanza di più
di 10 anni. Tratta un tema divenuto ancora più di attualità in questi ultimi
anni. Luce Irigaray analizza un punto di vista originale con grande acume, come
sempre avviene nei suoi scritti. (RL)
“Chi può
decidere, se non la donna stessa, se sia in grado o meno di ospitare un altro
dentro di sé? Imporre l’ospitalità a chi non la desidera, o a chi non si sente
di offrirla, equivale a fare violenza. Chiamiamo questa violenza
<occupazione>, quando siamo costretti a tollerare, nel nostro paese,
nella nostra città, perfino nella nostra casa, persone che non sono state invitate a venire
ad abitare con noi. Fino ad ora non avevamo immaginato una parola che
designasse ciò che prova una donna che scopre di avere in sé un ospite che non
ha invitato, per di più un ospite con cui deve condividere non solo uno spazio
esterno, ma il proprio corpo, il proprio sangue.
La cosa è
così sovraumana che ci lascia muti, senza parole, costretti ad implorare aiuto
sia della natura sia di Dio per lavarci le mani della situazione in cui si
trova la donna. Pensiamo che si tratti qui dell’opera della natura o di Dio
senza fermarci a riflettere sull’opera della donna stessa. Tanto più difficile
che l’ospite non è soltanto uno, ma due: è fatto da due. Nel suo corpo la donna
non ospita solo un futuro individuo con un proprio corpo o una propria anima,
ma l’unione di due corpi e di due anime: i suoi e quelli dell’uomo che ha
concepito insieme a lei.
Se la
gravidanza risulta da un atto d’amore, non c’è dubbio che il desiderio della
donna sarà di perpetuare in sé l’unione amorosa. Certo ospitare l’altro in sé
durante nove mesi non è una cosa solo agevole e gradita in ogni momento. Ma per
amore, per l’amore, le donne sono capaci di oltrepassare i limiti della solita
umanità.
Sfortunatamente
succede troppo spesso che la gravidanza
non sia il frutto di un’unione amorosa di corpi e di anime. E che
l’ospite non sia la perpetuazione di un atto d’amore. In questo caso è
piuttosto uno straniero che abita il corpo della donna, uno straniero che, in
parte, è anche lei. Accogliere in sé stessa un simile ospite non è una cosa
facile. La donna è lacerata fra sé stessa e un corpo estraneo che l’assedia
dall’interno. Non può sfuggire a questo assedio interiore di una presenza che è
e non è lei stessa. E anche se il corpo prosegue il suo lavoro, l’anima non
riesce ad accompagnarlo. La donna è dunque divisa tra corpo ed anima che si
possono armonizzare solo quando la gravidanza è un atto d’amore che si
perpetua.
Gran parte
della nostra tradizione è basata sulla separazione tra corpo ed anima. Ciò
spiega sia l’arroganza – compresa quella nei confronti della donna incinta
- sia l’infelicità della nostra umanità.
L’interpretazione più positiva della <buona novella> del Cristianesimo
consisterebbe nella riconciliazione tra corpo ed anima. Il Cristo ne sarebbe il
primo frutto se lo consideriamo come l’avvento o il ritorno del divino nella
carne. Ma se ciò viene inteso come la
messa a disposizione del corpo della donna per un logos maschile, allora non è una novità rispetto alla cultura
precedente. In tal caso il Cristo non testimonia una buona novella: il
possibile incamminarsi dell’umanità verso il suo compimento grazie alla
redenzione della carne per l’amore.
Diventa
invece tutt’altro se l’avvento del Verbo fatto carne viene inteso come il
superamento in Maria della scissione tra corpo ed anima, unite nella carne
andando oltre l’attrazione istintiva e l’arroganza mentale, grazie all’amore.
Questo passo in più dello sbocciare dell’umano è stato possibile perché il
Signore ha condiviso con Maria un soffio divino prima di metterla incinta
<naturalmente> . Questo c’insegna l’evento dell’Annunciazione in cui
l’angelo del Signore chiede a Maria se vuole essere la madre del salvatore del
mondo.
Tutto
questo sembra un po’ magico ed esigere da noi una fede cieca, a meno che
cerchiamo di sentire che cosa succede quando una donna è incinta, e come un
semplice processo naturale può giungere ad una dimensione spirituale che
consente all’umanità di accedere ad un ulteriore livello del suo compimento.
Sfortunatamente,
si dimentica troppo spesso che Maria, grazie all’unione tra natura umana e
natura divina nella sua carne, è il luogo fondatore del Cristianesimo. Maria si
è trovata incinta non solo a causa di sperma umano, ma per un respiro divino
che lei ha ricevuto e accettato di condividere per il tramite dell’angelo del
Signore, che ne simbolizza il soffio. Sembra ovvio per i cristiani che devono
tentare di imitare Gesù; eppure il più delle volte dimenticano come il suo
avvento è stato possibile e che cosa significa. Da anni, anche in occasione del
Natale, non sento allusioni a Maria nelle prediche. E le stesse donne ormai
pretendono di imitare Gesù invece di divinizzare la propria natura femminile.
Ma chi insegna loro in modo primitivo e non privativo, che esse sono il luogo
dove è nato, e può rinascere il Cristianesimo? Quale uomo si cura di perpetuare
un simile avvento mandando alla donna che ama il proprio angelo – cioè un
supplemento di respiro o di anima – per chiederle se vuole concepire un figlio,
in modo non solo naturale ma divino?
L’accento
posto sull’aborto naturale non risulterebbe da una cecità rispetto a un aborto
spirituale all’opera nella storia del Cristianesimo? Per mancanza di attenzione
e fedeltà all’unione del corpo e dell’anima che può compiere l’amore? La morale
non c’entra granché, in questo mistero. La sua preminenza avviene per la nostra
incapacità ad amare. Certo, un diritto civile positivo deve tutelare la possibilità
per la donna di assumere in modo responsabile la sua identità di donna. Il
resto è un affare d’amore per cui difettiamo tuttora di un insegnamento
adeguato, sia laico che religioso.
E se
rileggo i Vangeli portatori della <Buona Novella>, è di amore che sento
parlare e non di morale, un amore che passa anche attraverso i corpi, che si
toccano e diventano così capaci di compiere miracoli. La condanna morale la
trovo veramente di rado, salvo che nei confronti dei farisei, degli ipocriti ed
egoisti, dei ladri e mentitori, di quelli che gettano sassi alla donna che avrebbe peccato, senza considerare le
propri colpe né la capacità di amare della donna. Una donna per cui, è vero,
l’amore rimane troppo spesso una follia incapace di calcolare e sprovvista di
sapienza. Lo ribadisco: ci manca ancora una cultura dell’amore e del desiderio
all’altezza della nostra tradizione.”