Che
i travestimenti e la chirurgia estetica comportino dei rischi, unitamente a
qualche innegabile beneficio, deve essere cosa risaputa sin dall’antichità. A
ricordarmelo è un esilarante racconto de Lo
cunto de li cunti, di Giambattista Basile (Garzanti, Milano), che ho avuto
il piacere di sentire narrato da Peppe Barra durante una festa paesana. La
storia è più o meno questa. Sotto la casa di un Re – come poteva ad esempio
accadere nei quartieri spagnoli a Napoli – vanno ad abitare due vecchie sorelle
che erano “il riassunto delle disgrazie,
il protocollo delle deformità, il libro mastro della bruttezza” e per
giunta brontolavano per ogni piccola cosa accadesse sopra di loro, come in ogni
condominio che si rispetti. Ma proprio questa loro attitudine, finisce col
convincere il Re che sotto le sue finestre abitino delle impareggiabili e
nobilissime grazie, tant’è che inizia una corte serrata alle due invisibili
racchie. Queste – ben lungi dal rifiutare una simile fortuna – finiscono con lo
stare al gioco, mostrando allo spasimante, dopo un lungo assedio e dal buco
della serratura, solo un dito, tra l’altro della più vecchia delle due,
lungamente levigato per farlo sembrar nuovo. È il colpo di grazia: il Re decide
di congiungersi con la proprietaria del dito, per giunta completamente al buio,
al fine di rispettarne la vantata timidezza. Ed ecco che entra in gioco la
chirurgia estetica: in vista del congiungimento carnale, la vecchia si fa
tirare ed annodare dietro la schiena tutte le pelli ciondolanti – oggi lo
diremmo una sorta di lifting integrale –, si infila nel talamo e si concede al
buio al suo spasimante. Ahimè, il Re, nonostante la nobiltà d’animo e di
natali, si accorge tuttavia del triste nodo e ispezionata nel sonno la sua
compagna, al chiarore di una lucerna, va su tutte le furie, chiama le guardie e
la fa gettare d’un pezzo dalla finestra.
A
questo punto il racconto prende, tuttavia, una piega imprevista. La vecchia
lanciata dalla finestra non stramazza al suolo, ma resta impigliata in una
pianta e viene avvistata da sette fate di passaggio che, divertite dalla
vicenda, la fanno diventare per magia “giovane,
bella, ricca, nobile, virtuosa, benvoluta e fortunata”.
Il
Re, stupito dalla trasformazione e ritentato dalle nuove grazie della
vecchietta rinnovata, ritorna sui suoi passi e, dopo infinite scuse e promesse,
la sposa. Tutti vissero felici e contenti? Vi chiederete. Non proprio. La
sorella della vecchia, invitata al matrimonio e invidiosa della sorte dell’altra,
inizia a chiederle di continuo il segreto della sua miracolosa trasformazione,
fin quando la miracolata – per togliersela di torno – le dice che per diventare
come lei deve farsi scorticare. Detto, fatto. La sorella trova un barbiere che
dopo molte insistenze si presta a scorticarla viva con un rasoio fino a
provocarne la morte.
Il
fine didascalico è raggiunto e il racconto può dunque terminare con il motto: «la ‘nmidia, figlio mio, se stessa smafara» [l’invidia,
figlio mio, strugge se stessa].