Da piccoli, di solito, non ci si chiede
perché si è nati in un luogo anziché in un altro. Si vive e si cercano fortuna
e felicità là dove il destino ci ha deposto. Se col passare degli anni,
tuttavia, le cose prendono una brutta piega, ci si può convincere che la
propria fortuna abbia, per così dire, sbagliato indirizzo, che ci aspetti
altrove.
Per molti questa convinzione resta solo
motivo di rimpianto, per altri – i più forti, forse i più coraggiosi – diventa
l'inquietudine che li spinge ad andare in cerca del proprio destino (della
propria realizzazione) in un’altra città, in un'altra nazione o addirittura in
un altro continente, scoprendosi migranti.
Alcuni finiranno per trovare davvero la
propria fortuna in terre lontane e forse racconteranno orgogliosi, un giorno,
la propria storia ai nipoti. Altri scompariranno nell'anonimato di chi non
lascia traccia nella storia, altri ancora termineranno tragicamente la propria
corsa durante il viaggio. Di tutti, forse, resterà almeno un'immagine, una
foto.
Sì, perché la fotografia – sempre meno
forma d'arte e sempre più strumento di
cronaca diffusa – ha fin dalla propria nascita accompagnato i viaggiatori,
testimoniandone le imprese, i traguardi e le cadute. In particolare, con
riguardo all'emigrante – attuale
protagonista dell'epopea di viaggio per eccellenza – l'attenzione dei fotoreporter
(anche amatoriali) è stata sempre tendenzialmente attratta da tre momenti della
sua vicenda umana:
- il viaggio, con le sue difficoltà ed i
suoi drammi (ritraendo ad esempio, i barconi stracarichi di uomini, i
salvataggi in mare, gli sbarchi);
- la quotidianità nel Paese di arrivo, in
particolare quella legata al lavoro (ritraendo ad esempio i migranti al lavoro
nei campi oppure impegnati in città nelle più svariate attività
lavorative/artistiche);
- l'eventuale fattaccio di cronaca nera
(con il suo tipico corredo di foto segnaletiche e fotogrammi delle telecamere
di sorveglianza).
E la scelta non è naturalmente neutra. Se
la prima e l'ultima forma di rappresentazione, infatti, abilmente sfruttate dai
mezzi di comunicazione di massa, puntano a suscitare nello spettatore una forte
reazione emotiva, oscillante tra la commiserazione e la paura, la seconda si
presta meno a questo scopo e molto più alla documentazione di stampo
etnografico. Eppure, per uno strano effetto di mimetismo, questa fotografia,
che vorrebbe fissare nell'istantanea cattura della luce riflessa, le differenze
tra noi e l'altro, finisce spesso per restituire spaccati di umanità in cui
tali differenze risultano inferiori
alle attese. Questa è la sensazione che ho avuto anche guardando il video primo
classificato all'edizione 2017 del premio “Lucia Mastrodomenico”. Guardando gli
immigrati fotografati nel loro sforzo quotidiano di vivere - fatto di lavoro,
piccolo commercio, arte di strada, riposo – oltre al colore della pelle, non ho
colto grandi differenze con i nostri
concittadini impegnati nello stesso sforzo. E mi sono, allora, tornate alla
mente alcune considerazioni di Julia Kristeva (Stranieri a noi stessi) lette un po' di anni fa:
«Stranamente
lo straniero ci abita: è la faccia nascosta della nostra identità, lo spazio
che rovina la nostra dimora, il tempo in cui sprofondano l'intesa e la
simpatia. Riconoscendolo in noi ci risparmiamo di detestarlo in lui. Sintomo
che rende appunto il “noi” problematico, forse impossibile, lo straniero
comincia quando sorge la coscienza della mia differenza e finisce quando ci
riconosciamo tutti stranieri, ribelli ai legami e alle comunità».
Quasi a volermene convincere, scendo a
fare due passi tra Via Firenze, Via
Torino e Via Bologna, il cuore – forse – della Napoli migrante, e mentre cammino a fatica in mezzo ad una umanità
variopinta ed esotica, una scena – anche questa comunissima – attrae la mia attenzione:
due ragazze immigrate, vestite alla moda, con i visi un po' segnati ma
sorridenti, si mettono in posa con cura e si scattano un selfie davanti alla vetrina illuminata di un negozietto di
calzature.
Ivo Grillo (sociologo)