Dopo
la pubblicazione degli elaborati dei
vincitori della terza edizione del Premio per le scuole “Lucia Mastrodomenco”
riportiamo alcuni scritti degli studenti ritenuti, dalla commissione
esaminatrice, degni di menzione (NdR)
Salve,
sono Bruk.
Sono trascorsi 26 anni da quando sono
arrivato in Italia. Prima vivevo in Somalia, un paese sconvolto dalla guerra e
dalla povertà. Non dimenticherò mai quel giorno. Era il 27 agosto del 1987, una
splendida giornata, il sole brillava alto nel cielo, ma mentre ero in casa con
mio fratello udii un boato e subito dopo un rumore di vetri rotti. Una
pallottola di un mitra aveva frantumato la finestra della cucina colpendo mio
fratello sul petto. Quando vidi la scena rimasi paralizzato. Il respiro si
fermò per qualche secondo. Ero solo. Il buio mi invase e mi ritrovai avvolto
dalle tenebre. Quando tornarono i miei genitori decisero che l’unica soluzione
fosse partire immediatamente. Alle 23,15 di quella funesta serata ci imbarcammo
clandestinamente su un barcone malandato con altre centinaia di persone. Ci
gettarono nella stiva della nave tutti insieme. Era buio. Avevo paura. Non
sapevo che fine avrei fatto, né dove sarei arrivato, in quel momento riuscivo a
pensare solo a mio fratello. Si chiamava Abayomi e aveva solo dieci anni. Viaggiammo
tutta la notte e anche tutto il giorno seguente. Approdammo a Lampedusa, in
Sicilia. Finalmente eravamo in Italia.
Venimmo accolti dalla polizia locale e
dai volontari. Io e gli altri bambini sopravvissuti al massacrante viaggio, fummo
accompagnati in una scuola chiusa da una giovane crocerossina. E’ il primo
ricordo dolce che ho, il sorriso di quella ragazza, che una volta arrivati ci
portò una tazza di latte fumante e dei biscotti al cioccolato. Come erano
buoni! Dopo qualche settimana trovammo sistemazione da un’amica della mamma che
si era trasferita sette anni prima per studiare giurisprudenza, e grazie alla
sua grinta era diventata avvocato poco tempo dopo la laurea! Adesso toccava a
me studiare. Mi iscrissero a scuola. All’inizio ebbi problemi ad integrarmi
soprattutto perché, non conoscendo la lingua, non capivo ciò che mi accadeva
intorno. Fortunatamente nella classe c’era un ragazzino polacco che si chiamava
Casimiro. Legai moltissimo con lui e, ancora oggi è il mio migliore amico. Quando lo vidi per la prima volta mi
incuriosì. Era magrolino e non molto alto, aveva i capelli dorati e gli occhi
blu. Ma la sua particolarità erano le guance rosse e un po’ paffute. Veniva
dalla periferia di Radom. Era arrivato qui in Italia, con la sua famiglia, a
bordo di un tir che trasportava frigoriferi. Mi raccontava sempre, con fare
vissuto, che nei pressi della frontiera, il camionista li aveva fatti
nascondere dentro i frigoriferi per paura dei controlli. Arrivati al confine il
camion poi si era fermato, avevano aperto il portellone… ma dopo pochi secondi
di panico si era sentito il “CLAK” della portiera e subito dopo il tir aveva
ripreso il viaggio. Erano arrivati a Milano dove erano stati ospitati da alcuni
parenti, ma dopo poco, grazie al lavoro del padre si erano trasferiti a Firenze
e avevano trovato casa. Ancora oggi vivono lì. Poco alla volta io e Casimiro
imparammo l’italiano e cominciammo a socializzare con gli altri bambini. Alle scuole
medie però iniziarono i problemi, perché i ragazzi, a differenza dei bambini
non sono ingenui e innocenti, ben presto diventai bersaglio per un gruppetto di
ragazzini razzisti. Mi prendevano in giro per il colore della mia pelle. Non
riuscivano a capire che quello che conta davvero non è l’esterno ma quello che
si ha dentro. Casimiro però era sempre al mio fianco. Mi difendeva sempre anche
al liceo, dove continuavo ad essere vittima di bullismo. Quel mingherlino
bambino polacco era diventato alto e muscoloso, inoltre era davvero svelto ed
intelligente tanto che bastavano poche delle sue parole per mandare via gli
ignoranti.
La sua perla era:”Se la gente si
levasse i paraocchi e cominciasse a guardare questo mondo con occhi nuovi,
capirebbe che quello che conta è che gli uomini hanno un cuore rosso che ci
regala la vita e quindi ci rende tutti uguali”. Spesso erano inutili le “perle”
di Casimiro per porre fine alla tortura. Una volta tornai a casa dicendo di
voler smettere di studiare tanto non potevo diventare nessuno di importante
perché ero un “nero”. Mia madre e le mie professoresse però mi spronarono a
continuare gli studi. Presi il diploma a diciannove anni e mi iscrissi
all’università. Questa fu una delle scelte più difficili da prendere, fu anche
più dura che lasciare il mio paese .
Mi iscrissi a Medicina. Casimiro invece
iniziò gli studi di Fisica nucleare. Una mattina, mentre ero sulla strada per
l’università, fuori ad un centro commerciale incontrai un giovane rumeno di
circa venticinque anni. Indossava abiti logori e chiedeva l’elemosina. Mi
avvicinai, gli diedi un euro e gli chiesi quale fosse la sua storia. Il ragazzo
, dopo avermi ringraziato mi disse che era arrivato qui a Firenze cinque mesi
fa, con la moglie, nella speranza di trovare un lavoro per garantire un futuro
ai suoi figli e per far operare la madre malata di cuore. Invece era costretto
a chiedere l’elemosina per sopravvivere.
Mi raccontò che il giorno prima era riuscito a raccogliere solo tre euro , giusto
per comprare un panino. Poi, concludendo il racconto, disse che era costretto a
vivere in una baracca con la paura di essere cacciato e che sperava tanto che
la situazione migliorasse. Mi allontanai da lui riflettendo sul fatto che
l’unico strumento in grado di demolire le differenze tra gli uomini è il
lavoro. Infatti, oggi posso dire di essere un uomo fortunato, perché ho
raggiunto il mio obiettivo diventando un oncologo. Il mio amico Casimiro ha
fatto carriera diventando ricercatore al CNR.
Posso affermare quindi che qualunque
sia il paese di origine, il colore della pelle e la cultura, si può arrivare
lontano grazie all’impegno e non esiste una condizione universale degli
immigrati perché ognuno di noi è architetto della propria vita.
Alessia
Pota