“Dagli sguardi filosofici
di Edith Stein, Hannah Arendt, Simone Weil, Maria Zambrano: guerra e pace, una
questione umana.”(prima parte)
La pace è connaturata
all’essere umano?
La guerra è connaturata
all’essere umano?
In seno alla riflessione sull’intricata e
scivolosa «questione umana», interrogativi
sono stati i punti di partenza di un cammino dialogico intrapreso dal 20 al
24 marzo 2017 dalla prof.ssa Stefania Tarantino, studiosa delle filosofe del XX
secolo, nello spazio pregno di memoria storico-culturale dell’ Istituto
Italiano degli Studi Filosofici di Napoli (Palazzo Serra di
Cassano, Via Monte di Dio 14).
Ci hanno accompagnato lungo il percorso pensatori e pensatrici che attraverso
la ricerca filosofica si sono addentrati nella chiaroscurale «questione
dell’umano» che continua a riemergere energicamente dal profondo delle storie
individuali e della storia collettiva.
Gli interrogativi che hanno scandito il passo
del processo dialogico, pertanto, sono tutt’altro che fluttuanti e lontani
dalla realtà storica. Si originano dai fatti
che hanno determinato il nostro presente insanguinato da guerre più o meno
celate, le cui devastazioni continuano a colpirci totalmente in quanto
individualità e collettività, nelle nostre identità di genere, culturali, politiche differenti e a colpire la
biodiversità animale e vegetale, l’ambiente, il pianeta.
Il 20 marzo, nel corso del primo incontro, lo
sguardo critico di Umberto Eco sulla guerra e la pace ci ha sollecitato a
prestare attenzione all’ambiguità che può celarsi nell’articolazione della
parola “pace”, non solo in quella della parola “guerra”: premessa necessaria
per tenere d’occhio le derive che si celano oltre le parole ed i relativi campi
semantici. Nel corso della storia e del nostro presente, abbiamo ascoltato
troppo spesso la parola “pace” confondersi con quella di “guerra” e viceversa.
Un esempio eloquente sono tutti quegli interventi bellici nominati come “missioni
di pace”. Umberto Eco nel ricordare in particolare la cosiddetta «Guerra
fredda» e la «Guerra del Golfo» ma anche le innumerevoli «neoguerre» in atto,
ravvisa quanto la parola guerra nei discorsi politici, nelle propagande e
nell’informazione mediatica sia stata sottaciuta, potremmo dire quasi
tabuizzata e posizionata tra le righe o “raffreddata” per contenerne la
portata. La guerra ha ceduto, così, il passo ad una «pace belligerante» o ad
una «belligeranza pacifica» - come la rinomina Eco in A passo di Gambero. Guerre
calde e populismo mediatico del 2006 - e a un conseguente stato di tensione
che aveva un centro di stabilità nelle cosiddette potenze mondiali. Eco invece ci
invita a guardare alle aree geografiche che per il centro sono divenute
«periferie», divise in Secondo e Terzo Mondo (rispetto a se stesso), dove le guerre
non sono fredde, ma endemiche e scottano, radendo al suolo parti di mondo e di pianeta. Per di più, negli
ultimi anni, “centro” e “periferie”, si ritrovano a fronteggiare focolai
di vero e proprio terrore che alimentano
una guerra di portata esponenziale, a tratti sotterranea, tra l’Isis ed il
resto del mondo. In tale scenario, la pace diviene una questione calda che
stona con ogni pretesa di una pace precostituita indipendentemente dai fatti storici. Gli esseri umani dagli
albori dei tempi hanno dovuto affrontare guerre, «le paleoguerre» come le
denomina Eco caratterizzate da avversari ed eserciti che si scontravano frontalmente
di carattere diverso dalle «neoguerre» della contemporaneità in cui gli
avversari intervengono in anonimato e da posizioni e con tempi inaspettati e insospettabili.
In Eco, quindi, può essere colta una messa in discussione della pace con la P
maiuscola come «eredità perduta»: la pace non è stata perduta né può essere una
pace ereditata esclusivamente dal centro, da esportare nelle periferie del
mondo. «Paci locali a macchia di leopardo» con la p minuscola possono essere
costruite attraverso un’individuale e collettiva lucida lettura della realtà
che consenta di individuare le sotterranee ragioni delle guerre, i celati
traffici internazionali di armi e di risorse economiche e innanzitutto nell’iniziare
a nominare le guerre per come sono, rimuovendo maschere di pace surrogata.
Accanto alla prospettiva di Eco, le pagine di
alcuni estratti di Per la pace perpetua
del 1795 di Immanuel Kant hanno ampliato gli orizzonti dell’incontro del 20
marzo. Sono i tempi della modernità che
continuiamo a condividere con il filosofo prussiano il cui sguardo è fiducioso
in seguito alla pace di Basilea e al riconoscimento delle rivoluzioni
illuministe in atto, a partire dalla Francia. Nello sguardo kantiano brilla la
speranza di una pace effettiva ed estesa, “una pace perpetua” realizzabile
attraverso l’attitudine al bene
intrinseca all’essere umano. La nutrita speranza di pace in Kant, tuttavia, non
gli impedisce di scorgere negli esseri umani il tratto hobbesiano homo homini lupus sempre in agguato.
L’essere umano seppure abitato dalla violenza e da un costante istinto
bellicoso può andare oltre gli antagonismi, porgendo l’orecchio alla sua
attitudine pacifica attraverso il lume della
ragione ed il buon senso così
come attraverso l’esercizio del diritto
esterno che fonda lo Stato, uno spazio comune in cui gli egoismi devono
lasciare il posto ad una cooperazione che tenga conto delle esigenze di ognuno.
Dallo stato di natura degli esseri umani emerge
una «guerra di tutti contro tutti» (bellum
omnium contra omnes); tuttavia, quest’ultima riconosciuta e superata
attraverso il riconoscimento di essere singolarità accanto a singolarità altre
che hanno in comune un’intrinseca socialità, possiamo, nella prospettiva
kantiana, giungere a Stati organizzati e fondati sulla prevalenza della socievolezza che ha in sé un carattere pacifico. La pace che Kant persegue è
pace differente dalla tregua; è pace «perpetua», ovvero da costruire attraverso
una federazione di Stati che rinuncino all’Assolutismo in favore della
Repubblica e soprattutto una pace da edificare sull’ascolto della «coscienza
morale», la sola che possa garantirle di durare e di resistere all’incombente
prevaricazione della guerra.
La critica kantiana ci ha, inoltre, ricordato
che non può esserci pace senza la possibilità che l’essere umano ha di superare
il gioco del più forte e del più debole per scegliere il gioco della
cooperazione su un’unica e comune superficie terrestre, patria di tutti dove è
accidentale l’essere nati in un determinato luogo. Tutti gli esseri umani sono cosmopoliti perché tutti in nome della
socievolezza hanno diritto alla
libera circolazione sulla Terra, casa comune, e a far parte di una società
civile in cui nessun essere umano ha più diritto di un altro ad abitare su una
parte di Terra e nonostante l’ingiustizia sia incombente, tale diritto inevitabilmente riesce a farsi
strada nel corso della storia.
Nella vastità del pensiero kantiano e nei limiti
di tempo disponibili, abbiamo potuto cogliere, prima di proseguire nel
dibattito, la possibilità che noi esseri umani abbiamo di non rassegnarci
all’inevitabilità della guerra, ma di rendere «la pace perpetua» una stella
guida che ispiri azioni, comportamenti e “cammini” condivisi che tendano ad
essa.
Il giorno 21 ad accompagnarci è stato lo sguardo
di Hannah Arendt, pensatrice politica, figlia
della contemporaneità. Arendt nella Lingua
materna sostiene che non possa esistere processo di pensiero senza
esperienze personali e tale presupposto risuona particolarmente nella
riflessione sulla questione umana riguardo la guerra e la pace. Il pensiero
arendtiano si origina nel cuore della storia personale di Hannah Arendt, le cui
radici affondano nel XX secolo, tempo problematico nelle sue luci e nelle sue
ombre, tempo di Totalitarismi e di Guerre Mondiali. In un secolo dove la
violenza è estrema, Arendt oppone ad un pensiero filosofico improntato sul
rapporto tra uomo e mortalità, un pensiero filosofico-politico della natalità. Nascita è «originario inizio»
e l’essere umano che fa ingresso nel mondo, nel suo esserci può dare inizio al
nuovo e a cose nuove con il suo agire. La sua origine, tuttavia, è un mistero
e, al cospetto di se stesso, l’essere umano si attualizza come un nodoso
enigma.
Alla luce degli interrogativi con i quali siamo
partiti, il pensiero arendtiano suona come un invito a soffermarci su ciò che è
“connaturato all’essere umano” che
rinvia alla natura umana e alla
questione rompicapo: chi è l’uomo? che cos’è l’umano?
Arendt ravvisa il danno del cristallizzare
l’essere umano in un’idea definitiva di Uomo,
così come è stato nelle derive ideologiche dei totalitarismi. L’indagine
coinvolgerà quindi più che l’insondabile natura umana, la sua condizione di esistenza, il suo esserci e collocarsi nel mondo.
Sulla linea arendtiana, potremmo affermare che
l’essere nel mondo prevede più che la guerra, il conflitto. Il conflitto si genera da una relazione delineata dai
contrasti che non esclude il suo carattere costruttivo. La guerra corrode la
relazione con un imprevedibile carattere distruttivo. Nella guerra si perde un
frammento unico e irripetibile di mondo ed il danno è comune. “Vincitori e
vinti”, “ oppressi ed oppressori” perdono insieme.
Si connette, pertanto, alla riflessione sulla
guerra e la pace, il rapporto tra potere e violenza. La pensatrice tedesca
mettendo in discussione la corrispondenza tra potere e violenza, intende il potere come una forza organizzata
orizzontalmente da una pluralità di uomini, un agire insieme e la sua durata dipende dalla scelta comune degli individui
coinvolti, scelta dalla quale si origina il
politico.
La violenza invece è una forza incontrollabile,
forza strumentale al potere degenerato che non dura e sa in fondo di non poter
durare perché distrugge, annienta parti di mondo sulle quali si è originato.
Quando il potere si serve della violenza come strumento punitivo o di
imposizione d’obbedienza è un potere destinato ad implodere perché contattando
il suo limite edifica muri invalicabili e trincee, non è in grado di
rapportarsi alla sua vulnerabilità ed alla vulnerabilità che comporta l’essere
sulla terra, nel mondo: terreno favorevole per la guerra.
Nella riflessione sulla guerra e la pace nel
corso degli incontri è sorto l’interrogativo se la violenza possa divenire la
manifestazione di un rapporto banale
e sradicato nel senso arendtiano tra
il potere e la vulnerabilità del suo sistema e la vulnerabilità degli esseri
umani, un rapporto non risolto perché rifiutato, censurato.
Giovanna Grieco