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Filosofe per la Pace (seconda parte)

“Dagli sguardi filosofici di Edith Stein, Hannah Arendt, Simone Weil, Maria Zambrano: guerra e pace, una questione umana.”

Il 22 marzo, avvicinandoci alla ricerca filosofica di Edith Stein, l’accento è stato posto sulle relazioni che i soggetti scelgono di costruire oltre muri, fili spinati e frontiere, con soggetti altri. Stein ci riporta a una relazione tra soggetti nel quale avviene misteriosamente un dischiudersi all’ascolto, un accoglimento reciproco e un essere-con  in cui centrale è la dimensione fenomenologica, la con-divisione dell’esperienza vissuta. Nel vissuto comune, con-diviso, i soggetti vedono l’un l’altro come io con io e tu con tu. Se le singolarità originarie non sono annullate, ma la pluralità dei rispettivi io-corpi vissuti, come unità psicofisiche irriducibili ed irripetibili restano distinti, differenti ed unici e vivono reciprocamente il sentirsi accompagnati l’uno dall’altro, si sta edificando un noi. Noi che non prevede con-fusione dei soggetti-individui, ma una connessione, un riconoscimento reciproco nel quale ha luogo e tempo, qui ed ora, l’atto empatico.
Empatia (Einfühlung), diviene, in partenza fare esperienza del limite, riconoscere di essere fragilmente limitati, vissuto esperienziale che fa del limite una via possibile per vedere al di là del proprio essere io.  Empatia rispetto all’ambiente e al mondo circostante che i soggetti abitano, prevede pertanto lo stupore della caduta di corazze e maschere per ritrovarsi per come si è, al cospetto di sguardi orizzontali che disarmano. Rammemorando l’esempio della Stein in Il problema dell’empatia del 1917 per comprendere ciò che intende per empatia: «Un amico viene da me e mi dice di aver perduto un fratello e io mi rendo conto del suo dolore. Che cos’è questo rendersi conto?» Empatia che non può essere unipatia (Eins-fühlung = sentirsi uno), ma atto di accoglimento di qualcosa che è altro-da-me, quindi, cogliere ed accogliere il dolore come suo dolore che non si riduce unicamente al mio dolore; il modo di viverlo è differente seppure il vissuto sia comune. Empatia come atto che non si esaurisce nei soggetti ma che si crea e ricrea una condizione nuova intersoggettiva che ha in sé il germoglio di un potenziale essere comunità plurale.
Comunità è in Stein distinta da associazione come può essere la società, una massa, dove la complessità profonda degli umani resta inespressa.
Nella società gli individui sono correlati ma i legami sono esclusivamente razionali e impersonali, non si va a fondo dell’umano che ognuno/a pluralmente e spiritualmente incarna.
La massa è impulsivamente sensibile a relazioni di tipo verticali con un Capo che può essere un Individuo che la sovrasta quanto un’Idea. 
In un contesto storico problematico dove sistemi totalitari si stavano affermando, Stein vi contrasta la sua visione di Stato: una comunità statale accanto a comunità statali-altre che hanno carattere plurale in sé, nella quale i soggetti che diventano anche cittadini sono responsabili e hanno stessi diritti, condizioni assunte e sostenute attraverso atti empatici vissuti. Stein, consapevole dell’estrema difficoltà di un’autentica costituzione comunitaria a partire dalla sua realtà storica, proprio per questo sembra voler credere che gli esseri umani se possono con-dividere atti empatici, vi possano potenzialmente tendere ed organizzarsi per l’impresa ardua attraverso il percorso educativo in cui poter prendere coscienza delle potenzialità soggettive e intersoggettive. In questi casi si sarebbe troppo impegnati in una progettualità costruttiva e pluralmente con-divisa per scatenare guerre.
Il 23 marzo, attraverso la testimonianza filosofica e umana di Simone Weil, la questione dell’umano tra guerra e pace è risuonata nella problematica del radicamento e dello sradicamento con i quali siamo chiamati a confrontarci individualmente e collettivamente. Weil con lucida indagine individua una malattia imperversante nelle società umane: lo sradicamento. Dalla sua esperienza dolorosa e alienante in fabbrica con i suoi compagni di lavoro, in coloro che sono stati oppressi, schiavizzati, esiliati, estraniati, annientati sulla loro stessa terra, riscontra il dramma dell’essere sradicati da un sistema disumanizzato a sua volta sradicato e sradicante. Interessandosi al problema del colonialismo e delle sue conseguenze sui popoli autoctoni, riconosce seppure in contesto differente, quello sradicamento che aveva sperimentato in fabbrica e denuncia il relativo annientamento delle patrie, crimine commesso dalla sua stessa Francia. Come sottolinea Domenico Canciani, in Simone Weil. Il male dell’Occidente: lo sradicamento, l’Occidente colonialista sradicato dal suo interno, esporta lo sradicamento. Chi è sradicato difficilmente resiste all’annichilimento cadendovi inerte oppure diviene il soggetto che sradica disposto a violenze estreme, a devastanti guerre e scontri di civiltà. In piena occupazione nazista della Francia, Weil connette la caduta della sua patria alle altre patrie perdute e ripartendo dal colonialismo, sceglie di rileggere la storia. Vede nel suo presente un tempo in cui l’Europa ha smarrito la luce della memoria. Sostiene, pertanto, la necessità di rammemorare non come un abbandonarsi alla nostalgia, ma come un ritrovare l’eredità umana del passato da cui trarre ispirazione per rigenerare patrie.
Patrie in senso di comunità plurale in cui siano rispettati diritti e doveri per tutti i cittadini, in cui vi sia giustizia e bellezza (seppure il termine comunità non sia preso in considerazione da Weil per evitare fraintendimenti con la comunità della Rivoluzione nazionale, del Nazionalismo di Vichy ai quali si oppose). Vi sono forze mortifere che spingono gli umani verso il male, sostiene Weil; ciò è inevitabile, ma come possiamo contrastare tali forze?
Attraverso la ricostruzione di una patria che si radichi dalle rovine del passato, non fondata quindi sulla forza bruta, ma su una forza differente che è riconoscimento della propria fragilità. Il bene per Simone Weil è estremamente fragile e vulnerabile. L’uomo può risalire all’origine della forza mortifera e superarla mettendo radici (politiche, culturali, spirituali…). Pòlemos, il conflitto, il contrasto è movimento vitale se non degenera, ma resta radicato.
Con uno sguardo al passato Weil rivede nell’Iliade un’ispirazione per il presente. L’Iliade è a tutti gli effetti il poema della forza, tuttavia chi lo ha composto cerca di dare attenzione sia ai Greci che ai Troiani equamente. Non vi sono vincitori e vinti, ma il dramma tragico di una guerra che può solo alimentare altra guerra dove a mancare è uno spazio fondante di sospensione, lo spazio del pensiero radicale che regola la forza tra l’impulso-ad-agire e l’azione. Nella sospensione dove si genera il pensiero, l’azione può umanizzarsi e disobbedire al suo carattere violento. Umanizzazione diviene così superamento della legge del taglione, logica della vendetta che riduce l’essere umano sia “vinto” o “vincitore”, “oppresso” o “oppressore” a mera cosa, un cadavere non riconosciuto in entrambe le posizioni: il vinto, l’oppresso, minacciato da un’arma o da un atto violento eclatante o sotterraneo è privato del suo pensiero in quel momento; l’oppressore, il vincitore è altrettanto schiavo, posseduto dalla guerra che lo ha sovrastato. Nell’ottica della filosofa francese, nel poema è la dimensione della fragilità a restituirci l’umano; fragilità che diventa generatrice di bellezza perché radicata in ambienti naturali dove ogni particolare forma di vita ha origine, radicata alla terra e, allo stesso tempo, in dialogo con l’Oltre, aperta alla dimensione mistica. Weil prende come riferimento il Cristo come incarnazione di una fragilità che ha sperimentato la brutalità della violenza. Non ha potuto evitarla, ma l’ha oltrepassata attraverso il riconoscimento della stessa in sé e nell’altro. Cristo, nella pienezza del suo essere umano ha creato con la fragilità relazioni fondate sulla com-passione, sul riconoscimento radicale degli uomini e delle donne relegate ai margini della cosalità. Ha espresso e incarnato le potenzialità della grazia, una controforza leggera alla pesantezza della forza bruta.
Accanto alla ricerca umana e filosofica di Simone Weil, il 24 marzo, ci hanno accompagnato frammenti del pensiero e dell’esperienza umana di Maria Zambrano. La sua filosofia profondamente radicata alla sua vita mira a smuovere i sotterranei del suo tempo storico condiviso con Edith Stein, Hannah Arendt, Simone Weil. Vive in prima persona la durezza violenta degli anni di dittatura spagnola. Costretta all’esilio in quanto oppositrice al regime franchista, da una condizione di forzato “sradicamento” prende coscienza di un tratto caratteristico della condizione umana: la sua nudità fragile, segno che il processo della nascita non si è esaurito venendo alla luce dal grembo materno. Gli esseri umani vivono un continuo nascere, disnascere, rinascere che li avvicina alla morte e allo stesso tempo li allontana. Fin dal primo vagito, nel processo della natalità e nel sentirsi consapevolmente o meno fragili, gli esseri umani cercano la relazione dialogica e nel connettersi possono attuare un resistente processo di individualizzazione che determina l’essere-unici tra esseri-unici-altri. L’indagine della pensatrice spagnola è rivolta alla necessità di reintegrare parti dell’essere umano separate nel corso di secoli di filosofia, in particolare la dimensione mentale e la dimensione corporea che riconnette in un logos delle viscere (entrañas). Zambrano ci ha offerto la possibilità di concepire la ricerca filosofica come uno scavare oltre le tenebre e le luci, tendere al cuore del viscerale per sentirlo, viverlo senza cadere nell’illusione o pretesa di volerlo definire, cercando di rimanere vigili, in una veglia filosofica che riconosca e superi ogni volontà di dominio antropocentrico anche sulla propria natura e condizione umana.
L’attraversamento della realtà prevede ferite, imprevedibili trasformazioni e stravolgimenti, ma tale aderenza pensante, tra passività ed attività, è apertura alla natalità, apertura poetica.
Nell’esperire umano, il logos viscerale può presentarsi anche come materia difforme e se l’essere umano non si chiude nel rigoroso mentale, se disposto a scendere in caverne oscure e abissi ha la possibilità di sentire, vivere, cogliere un nascondimento e un dis-velamento (ἀλήθεια) dell’Oltre e «un modo oggettivo di trattare le cose» che risulta avere una certa familiarità con l’atto empatico nel pensiero di Edith Stein. Il realismo come «attenzione premurosa al mondo per come è nella sua interezza», l’aver cura di leggerlo con lucidità, assume i caratteri di un innamoramento, di uno sguardo appassionato che la poesia può esprimere. «Filosofico è il domandare e poetica è la scoperta», rileva Maria Zambrano in L’uomo ed il divino del 1955. Filosofia (come ad esempio l’interrogarsi sul senso enigmatico di ciò che è umano e ciò che è divinamente oltre) e poesia (scoperta viscerale di un oltre), separate nei secoli, rinviano ad un comune spazio non misurabile: uno spazio vuoto che può far rabbrividire e allo stesso tempo appassionare. Uno spazio che nella massa come è intesa dal suo maestro Josè Ortega y Gasset in La ribellione delle masse del 1930, ovvero in-distinzione, annichilimento dell’essere particolare dell’individuo, non può rientrare perché massa è fenomeno del pieno: agglomeramento sociale che non prevede il vuoto.
Zambrano intuisce che nel vuoto filosofico e poetico che sperimentiamo nella nostra carne, nel nostro essere unità psicofisica irriducibile, vi è il nostro esilio e allo stesso tempo la forza edificante della vulnerabilità, connaturata a, o meglio condizione del nostro essere umani, parte di un mondo gravido di relazioni e di inizi. In un tale e complesso cammino dialogico dal 20 al 24 marzo, i frammenti di pensiero radicale di ogni pensatrice e pensatore che ci ha accompagnato, hanno rigenerato gli interrogativi di partenza, non per rispondervi una volta per tutte con un punto fermo. Edith Stein, Hannah Arendt, Simone Weil, Maria Zambrano come pensatrici nella marginalità della loro condizione umana, di genere, 999storica, politica, culturale e spirituale, hanno dissotterrato e illuminato ciò che era stato rigettato, rinnegato, scartato: la vulnerabilità che raccolta ed accolta con cura appassionata nei cammini della filosofia, da rifiuto terrificante si è trasformata in humus che dal fondo dei vissuti dà origine radicalmente a qualcosa di nuovo.

Giovanna Grieco

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Pablo Picasso, Guernica, particolare, 1937.

Questo il calendario degli incontri tenuti da Stefania Tarantino - Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”- su: “Filosofe per la pace” 20–24 marzo 2017 presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici  (http://www.iisf.it):
20 marzo: “Pensare la pace”. Una premessa in compagnia di Immanuel Kant e di Umberto Eco.
21 marzo: Guerra e pace in Hannah Arendt.
22 marzo: L’empatia che porta al disarmo: Edith Stein.
23 marzo: Riflessioni sulla guerra e sull’Iliade o il poema della forza di Simone Weil.

24 marzo: Maria Zambrano. I “luoghi naturali” della condizione umana: pace e libertà.