“Dovremmo monetizzare.. Questo nostro grande
amore” (Cani, band d’appartamento).
È ormai noto che con i termini “millennials” e “generazione Y” si definiscono i giovani che attualmente hanno
compiuto dai sedici ai trentasei anni. Dopo la grande recessione che ha avuto
inizio nel 2006, si è sentito molto parlare di loro: chi li chiama mammoni, chi
bamboccioni, chi sfaticati, chi viziati. E la lista continua.
Effettivamente più del 70% dei giovani italiani appartenenti
a tale fascia d’età vive ancora con i genitori, tardando i riti di passaggio
all’età adulta, rimanendo per così dire in uno stato di liminalità: troppo
vecchi per essere teenagers, non ancora indipendenti per potersi reputare
adulti.
Come conseguenza dello sviluppo
tecnologico, molte professioni vanno estinguendosi, e una ricerca di Ubs ha
predetto che il 70% dei millennials “non avrà più la scrivania”, ovvero
lavorerà free lance, perchè, si sa, la ricerca di un posto fisso è ormai
demodè.
Il
dato, se considerato in valore assoluto, non è malvisto dai giovani,
tutt’altro: la nuova generazione è tecnologica e versatile, ed è inoltre
mediamente più istruita della precedente.
Ma
leggendo tra le righe, la ricerca di Ubs mette in luce la difficoltà che
incontrano i giovani giorno dopo giorno nel trovare un impiego, in un mondo in
cui prevale la burocrazia e il lucro soggettivo – nel senso civilistico del
termine.
Infatti,
l’espressione “Salary: not guaranteed/not
expected” è la frase più diffusa tra le offerte di lavoro (perlopiù
tirocini e stage) che vengono pubblicate e diffuse sulla rete dalle varie
agenzie di collocamento. Le stesse offerte di lavoro non solo si nascondono
dietro ad un “rimborso spese” di massimo 500 euro, ma sono sempre più pretenziose:
ottima conoscenza della lingua inglese e/o terza lingua, magistrale uso del
pacchetto Office, resilienza, affidabilità, problem solving...
Occorre smentire a gran voce tutti
coloro che reputano i millennials un’appendice parassita della famiglia, perchè
è vero che il lavoro c’è, ma manca il salario, e allora chi accetta giocoforza
tale compromesso può essere definito a tutti gli effetti un volontario e non un
lavoratore subordinato.
È quindi da ingenui farsi ingannare
dai dati Istat, che segnalano un incremento del tasso di occupazione di 0,1
punti percentuali: il contributo maggiore alla crescita degli occupati è dato
dalla generazione dei Baby Boomers, o
meglio i ‘genitori’ dei millennials che, ormai over 50, sono costretti a
lavorare a causa dei requisiti più stringenti per andare in pensione.
Stipendiati dalla famiglia o da
qualche lavoretto occasionale, i ragazzi della generazione Y trovano spesso rifugio nella musica: uno studio
condotto dall’Entertainment Retail Association e dalla British Phonographic
Industry afferma che i giovani di cui sopra passano in media molto più tempo ad
ascoltare e/o fare musica rispetto alla generazione dei propri genitori (circa
da tre a sette ore al giorno!).
Lo stile che va di moda è molto
diverso da quello di quarant’anni fa: oggigiorno si spazia dalla musica
elettronica a quella d’appartamento. Due tipologie fortemente dissimili, ma
altrettanto rappresentative di una generazione che non vuol pensare al domani,
non certo per attitudini personali, ma probabilmente perchè non può permetterselo.
La maggioranza dei giovani non si
culla nell’incertezza del futuro, come invece l’opinione pubblica è abituata a
pensare: non c’è cosa più alienante e spaventosa del sentir dire che “del diman
non v’è certezza”, soprattutto se ciò concerne il salario e, più in generale il
mondo del lavoro.