Questione centrale, affinché
il binomio etica-salute funzioni, è la capacità di stabilire relazioni. Va da
se che le relazioni sono contestuali; è in quel luogo che si realizzano, in una
consapevole disparità tra le persone sia di risorse sia di competenze. Le
mediazioni, le strategie, le contrattazioni, gli scambi, le collaborazioni che
quel luogo consente, determineranno vantaggio e gratificazione, per dirlo con
una parola “etica”, un “bene comune e una migliore qualità della vita”. È ormai
sapere comune che la cattiva gestione di un servizio dipende dall’incapacità di
creare relazioni. Nell’esercizio delle relazioni, disposte al piacere
lavorativo, i conflitti diventano una possibilità creativa non distruttiva
della relazione e del lavoro stesso. Relazioni buone alimentano il desiderio di
“fare” meglio; la competizione, se non è piegata alle leggi del mercato, serve
a dare risposte più efficaci. Tutto questo non dipende solo dalle risorse
economiche. I soldi, da soli, non motivano la responsabilità, né la volontà di
fare meglio.
Per attenermi all’argomento
voglio riportare qualche riflessione che si presenta nella relazione: medico-paziente, malato-sano,
amministratori-azienda sanitaria.
I tanti possibili percorsi
terapeutici, non si possono ridurre ad un semplice schema di interpretazione,
che vede da un parte come buona medicina, quella che nella relazione ascolta e
valorizza i pazienti, e dall’altra contrapposta una cattiva, che annulla la
relazione e ciecamente applica i protocolli. Non è così semplice, le
implicazioni sono tante e di varia natura. E’ essenziale però mettere in luce
il difficile lavoro delle persone che hanno il compito della “cura”. Figure
come l’infermiere, per esempio, che per la vicinanza ai pazienti possiede una competenza
professionale indispensabile. Sono loro, insieme ai medici di famiglia, le
figure essenziali per la mediazione con le istituzioni.
Nella relazione, si apre
appunto un “percorso di cura”. Uno spazio di ricerca, un momento difficile
della propria vita, in cui contano l’ascolto, gli affetti in cui il paziente ha
maturato la sua malattia, ma anche la scelta personale della cura da scegliere,
la capacità di capire cosa stia accadendo, la concreta possibilità di rendere espliciti gli obiettivi da raggiungere, insomma
un’esperienza singolare.
Una relazione terapeutica
efficace produce un sapere nuovo, avvertito da chi da una parte, per un caso
della vita è il malato, e dall’altro il curatore; un sapere che può circolare
perché dice di quei corpi in carne ed ossa e dei suoi percorsi di guarigione,
mettendo a nudo, attraverso la narrazione dell’esperienza vissuta e dei suoi
passaggi, la pratica disincarnata in cui si esprime la medicina scientifica.
Penso sia necessario cambiare “l’idea di malattia
prima che la malattia cambi noi”…. “La malattia non ha a che fare con la colpa.
È semplicemente un cambio di stato, ma oggi deve ancora scontare il pregiudizio
morale che noi mettiamo su malattia e malato, di qualsiasi malattia si
parli”.(*) Bisogna leggere la malattia come “nodo di passaggi”.
La responsabilità di chi si
occupa della cura del malato comporta avere davanti una persona che dobbiamo
predisporci a conoscere. La malattia fa parte della vita, questo vale per
tutti, anche per chi cura la malattia, il disagio in generale. Venirsi incontro
diventa imprescindibile. Nessuno ha un corpo per niente, il corpo ascoltato ci
fa cogliere di più e meglio. Dobbiamo imparare tutti/e a considerare, vivere “la
malattia come qualcosa di dinamico, un modo attraverso il quale una persona sta
tentando di dire qualcosa…. una comunicazione preziosa, non una sciagura da cui
prendere le distanze o da demonizzare, di cui non parlare. La malattia fa parte
della vita e farà sempre parte della vita. Io vorrei pesare dieci chili in meno:
questa è la mia malattia. Vorrà dire qualcosa il fatto che io desidero calare
10 chili, e invece mangio. È un punto di scissione tra quello che desidero e
quello che faccio e che si traduce nel sintomo dei miei dieci chili in più.” (*)
Fa parte della condizione
umana, “la sventura” di una malattia più o meno grave che sia. Nella nostra
vita siamo attraversati/e da ansie, fragilità fisiche e psichiche, quando stiamo male ci si trova a dover
raccogliere frammenti di emozioni, più che saperi, ed è la paura a farla da
padrona, la paura che si fa avanti , ci invade e ci spiazza. Una paura grande
perché non sappiamo prevedere l’unica cosa vera, che il più delle volte si muore per caso !!
Della capacità di stabilire
delle relazioni, e del cambiamento che queste comportano, anche quando parliamo
di salute, le donne sono maestre da sempre. Custodi delle cura da sempre, le
donne, hanno “sanato” meglio di chiunque altro le malattie, in famiglia, in
guerra, in preghiera. Destino di un amore che restituisce amore? maestre
antiche del dolore, ne conoscono il travaglio, e dalla nascita alla sepoltura, segnalano con la loro ritualità,
nel bene e nel male, nella felicità e nel lutto, per tutti uomini e donne, l’umana presenza.
Fa parte della vita la
vulnerabilità del corpo. Dalla culla, alla tomba, ci portiamo appresso il
nostro corpo, per la maggior parte dei casi non ne siamo consapevoli, a meno
che non ci dia dei disturbi. Nella cultura occidentale, la malattia come la
morte costituiscono il rimosso nei confronti della vita, eppure quale bene
potranno avere le nostre vite se in esse non è compresa la verità, la verità
del corpo che si può ammalare? Questa consapevolezza, la ricerca di una
maggiore armonia tra corpo e mente possono farci sperare in nuove pratiche cliniche,
in cui il paziente sia in una continua e “vera” costruzione di relazione con chi lo ha in cura. Più che di una speranza,
si tratta di credere, che ciò che va curato, confortato, è anche l’anima e il cuore, con o senza
l’inevitabile disfacimento del corpo.
(*)
Raffaella Pomposelli “ La malattia fa parte della vita” in “Due per sapere due
per guarire” a cura di Ipazia - Quaderni
di via Dogana - Milano, Libreria delle
Donne 1997
Lucia Mastrodomenico (2005)