Un
mito, si sa, è il frutto di stratificazioni di elementi aggiunti man mano in
epoche diverse. E ogni epoca corrisponde a sistemi di valori diversi. È il caso
della Medea di Euripide che, come alcuni hanno affermato, è il risultato di una
“mente patriarcale” che non rispecchia fedelmente la figura originaria di una
Medea sapiente, la quale non avrebbe ucciso i propri figli, bensì avrebbe
cercato di salvarli. Ma proseguiamo con ordine.
Lo
scorso 31 agosto è stato messo in scena lo spettacolo “Medeae... da Euripide in poi” nel parco archeologico di Paestum.
L’imponente tempio di Nettuno e un temporale in lontananza facevano da cornice
a una delle tragedie greche più conosciute ed apprezzate di tutti i tempi messa
in scena con grande coinvolgimento del pubblico.
Medea
è una donna forte, dalla personalità “straripante”. Nata dalla luce e
dall’ombra (suo padre Eeta era figlio del Sole e sua madre Ecate era la dea
dell’Oltretomba), tutta la sua vita è scandita da quest’alternanza di opposti: ella
è al contempo luce e ombra, amore e odio, maga e guaritrice e, infine, vittima
e carnefice. Il suo destino è legato
indissolubilmente a Giasone, eroe greco del quale Medea si innamora a prima
vista. Dopo averlo aiutato a conquistare il Vello d’Oro con le sue arti
magiche, ella fugge con lui e arriva a Corinto alla corte di Creonte.
Medea,
nata e cresciuta nella Colchide, descritta come una società fortemente
matriarcale, si ritrova in una città dove gli uomini gestiscono denaro e potere
e le donne non hanno alcun diritto. Nonostante questo ella s’impone subito
nella nuova città grazie al suo carattere sfrontato e alla sua intelligenza. E
gli stessi sentimenti contrastanti che la contraddistinguono vengono trasmessi
a coloro che la circondano, i quali l’ammirano prima e la invidiano poi.
Qui
la tragedia euripidea si apre: Giasone e Medea hanno avuto due figli ma la loro
felicità viene interrotta da Creonte, il quale propone a Giasone di sposare sua
figlia ed ereditare così il trono. Giasone acconsente. Creonte, preoccupato per
la vendetta di Medea, esilia lei e i suoi figli. Ma lei trova il tempo di
organizzare la sua vendetta.
A
questo punto Medea si trasforma nella maga crudele e vendicativa che Euripide
ci ha lasciato in memoria. Con un artefatto magico uccide la promessa sposa di
Giasone e suo padre Creonte. Ma, non soddisfatta, decide di troncare
definitivamente l’ultimo legame con l’uomo che l’ha abbandonata: dopo
un’estenuante battaglia contro la propria natura di madre decide di uccidere i
suoi stessi figli. Eppure, qualcosa non
torna. Come è possibile che Medea, in principio conosciuta come una guaritrice,
una saggia e una sapiente, si sia trasformata in un’infanticida? Proprio in
un’epoca in cui, tra l’altro, i figli erano considerati un “bene supremo”.
Qualcun
altro si è posto questa domanda e, circa vent’anni fa, ci ha scritto un libro.
Sto parlando di Christa Wolf, scrittrice tedesca che, in seguito ad attente
ricerche, ha elaborato una rivisitazione della Medea di Euripide, nella quale
ella cerca di salvare i suoi figli invece di ucciderli.
In
particolare, Wolf basò le sue ricerche sulle teorie di Bachofen, storico e
antropologo svizzero di fine Ottocento il quale ha individuato nel matriarcato
l’organizzazione originale della società antica; nell’antichità, infatti, si
poteva essere certi solo della maternità e, dunque, l’eredità si tramandava di
madre in figlia. Solo in seguito il matriarcato fu progressivamente sostituito
dal patriarcato e, secondo Bachofen, questo avvenne proprio all’epoca in cui
Euripide scrisse la tragedia.
A
sostenere questa tesi entra in gioco, qualche decennio più tardi, Friedrich
Nietzsche che, nella Nascita della
tragedia, individua proprio in Euripide la fine dell’equilibrio tra
“apollineo e dionisiaco”, con la definitiva affermazione del potere dell’uomo e
l’interruzione della genealogia femminile.
Da
quel momento storico la donna perde completamente il diritto di partecipare
alla vita politica, economica ed amministrativa della società e il suo ruolo
viene relegato a quello di madre e moglie sottomessa.
Il
ruolo che svolgono le arti (tra cui il teatro) durante i periodi di cambiamento
radicale nelle società, fa il resto; Medea, in quest’ottica, personifica la
fine del matriarcato. Una donna instabile, crudele, che arriva ad uccidere
coloro che ha generato.
Una
totale svalutazione del ruolo femminile che viene suggellata dalla frase di
Giasone: “Se solo i mortali potessero
generare figli, in un altro modo, e non
esistesse la razza femminile, l’umanità sarebbe salva da ogni male!”.
Maria Giovanna Giuliano
Laureata in Scienze Politiche. Specializzanda in
Giornalismo - Università “ Sapienza” - Roma