La relazione tra donne e uomini liberi è più importante di qualsiasi
verità. Questo è ciò che pensava un autore molto apprezzato da Hannah
Arendt, Gotthold Ephraim Lessing. Non solo, nelle sue opere, scelse di non
sottostare al rigore della logica e della coerenza dialettica, ma preferì
gettare nel mondo qualche fermenta
cognitionis piuttosto che sentenze irrevocabili e definitive. Suo obiettivo
principale era quello di incoraggiare ciascuno e ciascuna di noi a pensare da
sé. La Arendt, per questi ed altri motivi, gli riconosce di aver dato una serie
di indicazioni utili per una possibile riconciliazione tra pensiero e politica.
Un altro tra questi è che solo le diverse prospettive, la molteplicità dei
punti di vista mai sussumibili l’uno nell’altro, possono produrre dialogo
inteso come un confronto libero e appassionato. Uomo dal carattere polemico e
tagliente, Lessing detestava le persone presuntuose, quelle che credono di
avere sempre ragione e che, per un qualche motivo, pensano di avere nelle loro
mani la sola verità possibile. Era convinto, infatti, che il possesso della verità da parte di alcuni
sia deleterio non solo per la politica ma anche e soprattutto per l’idea stessa
di umanità tanto da porci di fronte a un aut-aut: o la verità o l’umanità.
Singolare la sua allusione alla gioia
che possiamo provare quando ci liberiamo dall’idea di detenere un potere
pericoloso e distruttivo come quello della verità unica, assoluta. Ciò perché
per lui possedere la verità significa, in fondo, rinunciare alla propria
libertà e al dialogo con gli altri. L’assoluto è indimostrabile e deve restare
tale. Non è cosa che ci compete se non trasversalmente; invece, ci compete
pienamente accettare la nostra parzialità e accettare altresì il fatto che l’oggettività
è stata una grande finzione/protezione che ci ha messo al riparo da quella
nostra congenita parzialità. C’è poi, in Lessing, un rifiuto totale verso tutto
ciò che è statico, rigido, fisso. Pensiero e azione sono in movimento. La rigidità annulla la
sperimentazione, la sorpresa, lo stupore, così come il perseguire qualcosa solo
per il suo risultato ci fa perdere il senso stesso della ricerca. Ma la cosa
più importante che Arendt gli riconosce è il senso che assume in lui l’amicizia politica. Amicizia da non
intendersi nel senso della fratellanza o, peggio, come qualcosa di sentimentale
e di intimamente personale, ma come ciò che è profondamente politico per il suo
carattere dialogico e per il suo essere sempre riferito al mondo. Apertura
all’altro e massima comprensione: l’amicizia è quel legame che ci consente di
essere noi stessi con l’altro, di vagliare e mettere in discussione le nostre
prospettive, di comprendere la posizione dell’altro che ci sta di fronte senza
schiacciarlo sulla nostra visione. L’amicizia si dà nel segno della
condivisione, prima di tutto della felicità.
Una voce unica, sola, non fa la politica. Una voce che parla per verità
assolute, che divide i buoni dai cattivi, non fa la politica. Fa
la politica, invece, lo sfondo comune sul quale tessiamo i nostri discorsi,
l’andare e venire delle nostre parole che danno senso, ogni volta di nuovo, a
questo nostro incontrarci e perderci nell’appartenenza comune alla terra.
Stefania
Tarantino