Stefania: In un articolo pubblicato nel 1989 sulla rivista
Madrigale dal titolo Più forza alle donne
firmato da Sandra Macci e Patrizia Melluso, ho trovato una riflessione
importante sullo slogan, molto in voga all’epoca, “dalle donne la forza delle
donne” e domande – ancora molto attuali –
intorno alla forza femminile in riferimento soprattutto alla politica
delle donne. La politica – sottolineano –
per chi ha scelto la mediazione femminile col mondo e vuole aprire spazi
di libertà femminile, può essere un campo privilegiato di azione. Tu cosa ne
pensi? Che valore ha per te la mediazione femminile in politica?
Chiara: È evidente che la mediazione è l’anima della politica, nel
senso che la politica richiede la capacità di mediare, di unire le cose invece
che dividerle. Però ritengo che c’è ancora dell’altro da dire quando si parla
di mediazione femminile. Per me significa, prima di tutto, come stare nelle
cose, come pensare e agire quello scarto che c’è tra la politica in generale e che cosa è per ciascuno/a di noi la politica. Gli
uomini la raccontano restando in questa generalità e quindi, a volte, capita
che risultino noiosi, pedanti. Questo è un modo che, di solito, allontana le
persone dalla politica rendendola qualcosa di estraneo, respingente,
inaccessibile. Invece noto che quando le donne fanno gli interventi, quando
parlano di politica, essa diventa una
cosa in senso letterale, qualcosa di vivo che appassiona e che ci riguarda
da vicino. Mi sembra che le donne siano capaci di generare l’inedito anche nel modo di fare politica. La differenza
sta nella materialità delle cose e in questa capacità di generazione che consente a ciascuno e a ciascuna di noi di
identificarsi e di impossessarsi nello stesso momento della propria vita e del
proprio agire. Accade troppo spesso che invece la politica maschile crei
distanza e senso di superiorità. Ci hanno inculcato che la politica, attraverso
i suoi apparati, sia mero esercizio di conquista e possesso del potere, mentre
le donne, nel corso del tempo e delle loro battaglie, hanno mostrato che essa
può essere tutt’altra cosa. Molte donne non si riconoscono in apparati che
irrigidiscono e fissano il potere nelle mani di pochi; questo modo di gestire
il potere le ha sempre allontanate ed è per questo che io credo che è la
visione stessa dell’agire e dello stare nella politica che deve essere
cambiato.
Stefania: Continuando sempre sulle riflessioni presenti nell’articolo
di Sandra Macci e Patrizia Melluso, ad un certo punto, la mia attenzione è
caduta sulla frase seguente: “se si ammette che la differenza sessuale non è
una dimensione astratta, ma una concreta pratica di relazione, bisogna
ammettere la possibilità che si generi conflitto quando ci si avvicini ai modi
propri della politica mista. Il conflitto c’è nei fatti, perché la politica, ed
anche il linguaggio, o il pensiero, o il diritto, non hanno mai pensato
l’essere uomo e l’essere donna. Hanno pensato l’uomo”. Ecco, alla luce delle
tue esperienze politiche che cosa pensi del conflitto e della difficoltà di
immettere un discorso che prima delle distinzioni tra individui e gruppi si
interroga a partire dalla differenza tra i sessi?
Chiara: Parto da un esempio che in questo momento mi riguarda da
vicino: la doppia preferenza di genere incontra tantissime resistenze da parte
delle donne le quali continuano a ritenere che questa – e io sono d’accordo con loro – non è la modalità
più giusta per entrare nella politica istituzionale. Allo stesso tempo però,
nonostante sappia che è tutto vero, che si tratta di un meccanismo perverso,
che è una forzatura legislativa, penso che senza di essa – e le statistiche e
la società parlano da sole – non ci potrebbe essere nessuna possibilità di
forare lo status quo. Il problema è,
prima di tutto, culturale. In una società che non si pone questo problema a
monte e che cerca di risolverlo soltanto attraverso luoghi comuni oppure usando
le donne quando la situazione politica lo richiede, la soluzione del 50 e 50
sembra quella più efficace. Siamo in un’epoca in cui ci fanno credere che
avendo il 50 e 50 tra i ministri, ad esempio, la parità è raggiunta e tutte
possiamo essere contente. Ma è evidente che non è così. La nostra esperienza ci
fa capire bene le tante trappole in dentro cui possiamo cadere. Si, ci sono dei
piccoli cambiamenti ma niente di veramente sostanziale. Il “famoso” conflitto è
continuamente disinnescato dalla politica tradizionale. Quando le donne
arrivano ad un certo punto è come se dovessero metterlo sempre da parte in nome
di altre cose: la responsabilità pubblica, il bene del paese, l’emergenza, la
crisi. È sempre in nome di tutto questo che ci chiedono di ridimensionare ciò
che per noi è essenziale a favore di qualcosa che è sempre più urgente e
ineludibile. Dobbiamo sempre domandarci: come queste donne sono diventate
ministre? A me sembra che poi, in fondo, le donne che aprono i conflitti lì non
ci sono mai e se per qualche motivo ci sono, vengono fatte fuori e isolate alla
prima occasione. Così, sulla differenza di genere c’è sempre un salto, un dover
andare oltre di essa che, guarda caso, si fa troppo velocemente. Si tratta, in
realtà, di un superare senza risolvere, di una spazzolata che non scioglie i
nodi. Non a caso ora si parla di politica delle persone, si sposta
l’attenzione, si cambiano le parole, ma come sappiamo la sostanza resta la
stessa. C’è un’arroganza che va ridimensionata e su cui dobbiamo vigilare. A
volte mi indigno per il modo con cui gli uomini continuano ad arrogarsi il
diritto di parlare una lingua universale senza tenere conto della loro
parzialità. Ad esempio: non si può parlare della guerra e della pace senza
tenere conto della differenza sessuale perché la guerra non è neutra come aveva
ben capito Virginia Woolf.
Stefania: L’importanza delle parole che si scelgono in politica è
essenziale. Tu cosa ne pensi?
Chiara: Ho sempre notato quanto il prendere parola degli uomini e
delle donne in politica sia diverso. So bene che nei miei interventi posso
sempre scegliere di non dire di essere femminista e di prendere una parola
neutra, ma scelgo invece di prendere posizione su questo e di dare corpo, il
mio corpo, alle parole che esprimo. Nella maggior parte dei discorsi maschili,
invece, c’è sempre una presunzione, un presupporre una universalità, una
neutralità perché, come dicevo prima, stanno in un generale disincarnato
che, secondo loro, ci riguarda tutti. A me invece accade che lì dove io non
riesco a parlare o a parlare in questa dimensione neutra mi sento un numero, lì
dove invece prendo parola a partire dal mio essere donna la scena cambia e
anche l’aspettativa di chi mi ascolta cambia. Una parola vera, vissuta prima di
tutto a partire da sé, cambia anche la natura del consenso, della partecipazione
politica.
Stefania: Insisto spesso sulla necessità di sostenere la vita
materiale delle donne perché solo così è possibile che ci sia autonomia e pieno
senso della libertà femminile? Coniugare però desiderio, vita materiale, lavoro
e libertà non è affatto semplice. Per la nostra generazione che non può avere
rimpianto del passato e men che mai delle grandi categorie del Novecento, la
sfida è proprio questa. Ma come fare?
Chiara: C’è una conflittualità tra le generazioni sulla questione
materiale, sulla difficile coniugazione tra vita materiale e libertà. Ognuna di
noi si assume la responsabilità e il peso delle proprie scelte. Io ci faccio i
conti ogni giorno, eppure, non rinuncerei mai a ciò che ho faticosamente
costruito e conquistato per un lavoro che annullerebbe nella mia vita quel
margine essenziale al cambiamento che voglio e desidero. Per cambiare il mondo
abbiamo bisogno di quel margine di libertà, di poter essere presenti, vigili
nel nostro tempo e non dobbiamo farcelo rubare. È chiaro però che se io sono
una precaria e voglio fare politica tutto è molto difficile. Solo se te lo puoi
permettere puoi fare tutto, quando non è così la musica cambia e tutto è molto
più complicato. Poi, nei luoghi lavorativi nessuno/a vuole mollare nulla di ciò
che già ha e difficilmente si fa spazio. Così, la nostra generazione deve
rinegoziare continuamente i termini della vita materiale e del proprio spazio
di libertà. Questa rinegoziazione continua la riesco a fare, senza perdermi,
grazie al femminismo.
Stefania: C’è un altro aspetto sul quale, per concludere, mi vorrei
soffermare e che è presente nell’articolo che è diventato un po’ il filo rosso
di questo nostro dialogo, è cioè che “dalle donne la forza delle donne” ha un senso forte solo se la forza delle
donne è radicata nello stare insieme delle donne, nella loro concreta pratica
di relazione.
Chiara: Si,
questa concreta pratica di relazione è il fondamento che tiene ancora in piedi
il femminismo che amo e in cui mi riconosco. Certo non è facile, eppure è ciò
che non dobbiamo abbandonare, nonostante a volte siamo tentate di fare un passo
indietro, di non starci più. Donne come Lucia Mastrodomenico e Angela Putino
che hanno avuto anche tanti momenti conflittuali e di rottura ce ne hanno
mostrato tutta l’importanza e la forza. Le relazioni verticali sono più o meno
facili, quelle in cui c’è orizzontalità sono rare e poco consuete. Non sono da
confondersi con mere pratiche di riconoscimento tra donne. C’è, semmai,
riconoscenza perché dall’altra vuoi il meglio e lo vuoi per lei, per te e per
la relazione stessa. Così mi sembra anche tra noi e con le tante donne
napoletane con cui abbiamo parlato del senso della reciprocità, della
coesistenza e della condivisione. È una questione di corpi, di voci, di energia
e di politica!
Stefania: Grazie Chiara, in bocca al
lupo!