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UOMO DEL MIO TEMPO


Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, 
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
quando il fratello disse all’altro fratello: 
“ Andiamo ai campi”. E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

Questa splendida lirica di Salvatore Quasimodo (premio Nobel per la poesia 1959)  appartiene alla raccolta  Giorno  dopo giorno del 1947 che  segna la svolta del poeta dalla poesia ermetica alla “nuova maniera”, una poesia, cioè, con un‘apertura  verso  l’impegno civile e politico che lo induce a narrare la contemporaneità, la tragedia della seconda guerra mondiale e quella della guerra civile. La raccolta di venti poesie si apre con Alle fronde dei salici, in cui il poeta confessa l’impossibilità di comporre versi in un momento in cui la patria è occupata dallo straniero (“con il piede straniero sopra il cuore”) e si assiste a terribili spettacoli di ferocia (“all’urlo nero/ della madre che andava incontro al figlio / crocifisso sul palo del telegrafo”),  confessione che viene ribadita in Giorno dopo giorno, la lirica che dà il nome alla raccolta (“Vi riconosco miei simili, mostri/ della terra. Al vostro morso è caduta la pietà / e la croce gentile ci ha lasciati./ E più non posso tornare nel mio eliso”) e in Forse il cuore (“Le parole ci stancano, risalgono da un’acqua lapidata; / forse il cuore ci resta, forse il cuore”). Ma se anche il poeta non può più “cantare”, può tuttavia  denunciare l’orrore “io ti ricordo quel geranio acceso /su un muro crivellato di mitraglia” (Lettera );  “Oh questi morti. Battete / sulla fronte, battete fino al cuore. / Che urli almeno qualcuno nel silenzio, / in questo cerchio bianco di sepolti” (Neve );  “Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:/ lasciateli nella terra delle loro case:/ la città è morta, è morta” in  Milano, agosto 1943, dedicata al bombardamento che colpì la città. Uomo del mio tempo conclude la breve silloge comprendente venti poesie, con una riflessione sulla ferinità della natura dell’ uomo, che nonostante tanti secoli di civiltà e le conquiste della scienza e della tecnica continua a uccidere con una barbarie primitiva, confermando  l’adagio  hobbesiano  homo homini lupus.
Ci sembra opportuno riproporre la lettura di questa lirica in un momento critico per il mondo, in cui sembra essersi risvegliata la barbarie e nella nostra Europa si consuma la tragedia del respingimento da parte dei paesi, cosiddetti civili, di un popolo di derelitti in fuga dalla miseria e dalla guerra.

Marinella Gargiulo