“Questo terzo contributo, insieme
ad altri che verranno pubblicati sul sito madrigaleperlucia, è il frutto di un
lavoro svolto da alcuni studenti e studentesse che hanno seguito i corsi di
Storia delle filosofie europee (triennale) e di Filosofia e storia delle idee
(magistrale), presso il Dipartimento di studi umanistici dell'Università degli
studi di Napoli "Federico II". Il corso della triennale è stato
dedicato al filosofo scozzese David Hume, quello della magistrale ai filosofi
spagnoli Ortega y Gasset e Maria Zambrano. Gli elaborati si concentrano su
alcuni concetti chiave del loro pensiero e invitano a una riflessione più ampia
con il nostro presente. Ho scelto e proposto la pubblicazione di quelli che mi
sono sembrati più significativi nella sezione da me curata”. Stefania Tarantino
Hume e la religione: classismo e
morale
La visione della religione di Hume è
impregnata, almeno apparentemente, di una dimensione etnocentrica, anzi, per
meglio dire, isocronocentrica: ovvero la sua osservazione delle due
forme fondamentali di religione (idolatria e teismo) è influenzata da quelle
professate in Gran Bretagna, in particolare da quella presbiteriana della
Scozia settecentesca.
Il carattere più evidente che emerge dal testo Storia
naturale della religione è, tuttavia, quello del classismo, che
permea l'ambito del sacro e soprattutto le sue istituzioni.
In un'attentissima analisi, Hume mette in
evidenza l'enorme distacco che esiste tra chi “crea” la religione e chi la
professa. Rimprovera a più riprese contro il volgo ignorante, reo di credere
solo ed esclusivamente per paura e non per ciò che la natura gli mostra. Questa
situazione ha comportato necessariamente un approfittarsi della situazione da
parte delle classi colte, che hanno sempre sfruttato a proprio vantaggio da un
lato la paura di piaghe lanciate dagli dei e dall'altro quella di una
travagliata vita ultraterrena.
È la superstizione, alimentata dall'incolpevole
ignoranza, che domina le pulsioni umane. Hume vuole mettere in luce lo
sfruttamento delle popolazioni. I sacerdoti, i sovrani, hanno sempre sfruttato
le paure del popolo per arricchirsi e per creare una base su cui fondare il
proprio potere. Ma la domanda da porsi è: come può il popolo non rendersi conto
del paradosso dell'esistenza di una divinità così meschina e vendicativa? Hume
risponde: il popolo non si rende conto che, in fondo, la natura è composta
delle stesse particelle di cui sono composti gli uomini e che i fenomeni
naturali scaturiscono semplicemente dal normale svolgersi del suo corso e non
dai capricci di un dio o di vari dei.
Il filosofo sembra qui anticipare quel concetto
di alienazione del divino tanto caro
a Feuerbach. Parla di una natura umana che è naturalmente portata a conferire
tratti familiari a ciò di cui non conosce la natura. Da qui si procede per
gradi verso l'adulazione di simulacri degli dei che, pian piano, diventano
testimoni della presenza stessa del dio fino a perderne il principio di
immanenza ed ubiquità. Questo è un tratto particolare dei politeismi. Nel corso
naturale degli eventi, il politeismo sfocia o si commuta nel teismo e
viceversa. C'è una ragione anche qui: Hume li chiama “flussi e riflussi”. È una
richiesta di bisogno, da parte del volgo, di un equilibrio tra le proprie paure
e la necessità di una guida unica che gli indichi la strada. Tutto ciò è stato
sfruttato ancora una volta dai creatori di religioni.
La critica di Hume al volgo, le differenze che
traccia tra teismo e idolatria, mette in luce i difetti di un sistema che per
secoli e secoli ha portato ad una differenziazione di classe degna del peggior
capitalismo. La questione della morale religiosa è una questione che non può
esistere, poiché religione e morale hanno ben poco in comune come afferma Hume.
La religione degli uomini non si basa su principi morali, ma su quelli della
soddisfazione dei capricci del dio. Ma un dio ha capricci? O sono i capricci
dei governanti? Classismo e amoralità sono i tratti fondamentali per una buona
religione, una religione che tiene in scacco i propri fedeli pronti a morire
per essa e per le smanie di conquista e di potere dei propri officiatori.
Ernesto De Martino parla della formazione della
religione come lotta per la presenza dell'umanità; delle dimensioni sacro e
profano che coesistono in quanto il profano è la dimensione naturale della vita
umana, mentre il sacro quella in cui l'uomo si rifugia nei momenti in cui la
sua presenza (intesa proprio come presenza fisica, non spirituale) è messa in
pericolo dal corso degli eventi naturali durante momenti di crisi in cui l'uomo
è chiamato ad esserci. Per compiere questo atto di riscatto, l'uomo attua un
processo di destorificazione religiosa, ovvero: dato che il divenire
angoscia perché rende incerta la presenza dell'uomo, la destorificazione
religiosa sottrae i momenti critici all'iniziativa umana risolvendoli nella interazione
dell'identico. Avviene che l'uomo, inteso come collettività, miticizza
delle situazioni di eroi che hanno vissuto situazioni simili alle loro per
seguire le loro orme nella scelta delle azioni da intraprendere. Questo, per De
Martino, è fondamentalmente il concetto di dimensione del sacro e dunque di
religione. Fin qui la religione è utile, utilissima. De Martino vede la
realizzazione umana all'interno della sfera del profano che rappresenta il quotidiano
luogo della presenza, ma quest'ultima deve essere protetta: tutto ciò avviene,
come detto, riplasmando la crisi nei modi del rito e del mito. Tuttavia si
arriva al punto che il pericolo che la presenza umana possa perdersi, divenendo
altro da sé, non viene rimosso dalla coscienza collettiva, ma viene
assunto dando vita ad una serie di istituti religiosi che offrono
l'opportunità di agire in perpetuo sulla crisi: è qui che si chiude il
cerchio. Il modus operandi delle istituzioni religiose non cambia, che
si tratti di politeismi o di teismi o di semplici superstizioni: “la
religione è l'oppio dei popoli”, non può esserci definizione più azzeccata.
Ma le credenze degli uomini così come non
devono essere oggetto di speculazione, non devono neanche essere denigrate: la
magia è la sintesi tra religione e scienza, è ciò che anticamente operava nel
pratico, aveva una dimensione privata e dunque incorruttibile. Tuttavia, com'è
facile immaginare, con l'avvento delle società e delle religioni la magia è stata
praticamente messa al bando, additata come “stregoneria” o come atto impuro a
causa del suo minare il primato delle istituzioni, che veniva fatto passare
come una vera e propria minaccia per l'incolumità dei cittadini in quanto
appartenenti allo stato.
Per Hume morale e religione sono due ambiti
separati; questo perché il fedele, a costo di propiziarsi la divinità, è capace
di commettere qualsiasi azione, anche e soprattutto a discapito dei suoi pari
e, anzi, le empietà commesse sono tanto più gravi quanto più è superstizioso
chi le compie, mentre si opera moralmente soltanto perché si è obbligati. Non
esiste fedele che concepisca i dettami morali come idonei alla religione: in
questo modo non si viene più a parlare di principi morali, bensì solo ed
esclusivamente di obblighi morali. La moralità, il perbenismo, la
compassione ed il “socialismo” professati dalle dottrine pure decadono:
l'esercizio della moralità diviene un semplice corollario al do ut des
con il divino, un qualcosa che deve lasciare la coscienza pulita e non un mezzo
per il bene comune. Hume conclude il saggio con un'inevitabile massima
confermata dalla esperienza: l'ignoranza è madre della devozione. Come
può essere altrimenti? Tuttavia la religione, come qualsiasi sovranità, è anche
necessaria a stabilire un certo ordine tra i popoli. Hume fa notare, infatti,
che, se esistesse un popolo totalmente privo di religione, esso sarebbe “di
poco superiore ai bruti”.
Concludo con un riferimento ai capoversi finali
della Storia naturale della religione. Questi
fanno capire anche come Hume sia un fine scrittore, che riesce a tenere il
lettore incollato ad un saggio filosofico come fosse quasi un noir,
lasciandolo in bilico tra una sua possibile adesione alla fede e il suo
scetticismo verso di essa, fino ad un conclusivo, parafrasando, "lasciate
che siano ancora gli ignoranti a discuterne, noi pensiamo alle cose
serie".
Federico Mangione