“Il paese dei
coppoloni”, ultima produzione letteraria dell’eclettico Vinicio Capossela, è
come la terra in cui si svolge: o la ami o
la odi; o entri immediatamente in empatica musicalità con il racconto, o
questo ti disorienta. Insomma non sono contemplate mezze misure. L’Irpinia
dunque come topos dell’impervia terra del meridione d’Italia, espressione di
quell’”osso” di efficacissima sintesi rossi-doriana, è così, o la ami di
quell’amore che anche lontano riecheggia nell’anima, o non la capisci, al punto che quell’intenso
connubio di asprezza dei luoghi ed asciuttezza dei suoi abitanti, ti annoia,
quasi infastidisce.
È la narrazione
di una ricerca di senso esistenziale. “I Siensi soltanto possono contrastare la paura incessante
che ci governa, che dà potere al manto nero dei preti di dominare la
superstizione, che dà potere a chi governa di tenerci sotto le piste dei piedi,
che dà potere al medico, al nobile, al giudice, i Siensi soltanto possono
vincere le paure e condurle a ragione” ; sono queste le parole che la
Totara, uno dei mitici personaggi del racconto,
dice al Viandante Capossela nell’indicargli la strada, nello spiegargli la necessità di possedere ciascuno il suo
punto di avvistamento, i Siensi appunto, per comprendere il proprio cammino.
Il paese dei
coppoloni è in fondo una storia d’amore, protagonisti Camoia, sorta di brigante
giusto e la Marescialla; una storia complicata, osteggiata e soprattutto
incompresa, che alla fine trova però il suo riconoscimento nel loro sposalizio suggellato dalla Festa, quella coi musicanti, gli accappanti, e tutti
gli invitati avvinghiati, sudati,
“sponzati come baccalà” lanciati nei balli e nei canti. Una storia che nella
sua festa trova la sua fine: Camoia muore mentre balla, così si passa senza
alcuna soluzione di continuità, dalla musica dello sposalizio a quella del
funerale. Si celebra così quel detto
meridionale “ziti e murticielli”(nozze e funerali) che mette in evidenza la contiguità
di vita e morte, secondo un destino al quale la gente del Sud si adatta ma mai
si rassegna.
La festa dunque
indissolubilmente legata alla musica, nella quale non esistono barriere sociali
e morali, nei cui eccessi si può avere quel “ri-creo” che consente nuove
visioni del mondo in barba all’ordine della realtà comunque necessario per
conservare le cose; ma, “perché esistano (le cose) bisogna che generino,
bisogna bruciarle per ricrearle”.
Vinicio Capossela è stato
insignito, insieme ad altri, del Premio “Lo Straniero” 2015. Questa la
motivazione : “ musicista originale e
bizzarro che sa scavare nel meglio della tradizione popolare del passato e sa
confrontarsi col presente senza inseguirne le mode, è anche un originale
narratore e con il paese dei coppoloni ci ha portato attraverso l’Irpinia,
patria dei suoi genitori, alla riscoperta e al confronto con un mondo scomparso
e con la sua ricchissima eredità di esperienze contadine e picaresche, di
esperienze sofferte e però vitalissime, in un viaggio nel passato stesso
dell’Italia di cui sentivamo il bisogno e di cui gli siamo riconoscenti”(tratto
da “Lo Straniero” anno XIX numero 181 – luglio 2015 – Roma – Contrasto s.r.l.
editore)
Maria
Vittoria Montemurro