Lucia Mastrodomenico
Riflessioni dal film : “La
ragazza del dipinto”
Definirei “La ragazza del dipinto” un film a sorpresa. Forse la stessa sorpresa
che descrisse l’autrice del testo, Misan Sagay, quando incappò casualmente
nella visione di un quadro appeso nella sala di un palazzo storico nella
lontana Scozia. Sagay racconta che ciò che la colpì era la raffigurazione di
due donne, una bianca ed una nera, in un’ambientazione del ‘700, dipinte in una situazione “alla pari”,
condizione sconosciuta per quell’epoca in quell’ambiente chiuso e pieno di
preconcetti.
L’autrice del testo, una studiosa di origini nigeriane nata in
Inghilterra, incomincia una ricerca della storia del quadro, che verrà poi
liberamente sceneggiato nel film dalla regista Ama Asanti, anch’essa di origine
ghanese, nata in Inghilterra. Dunque due
donne di origini africane, le realizzatrici del film. Il film ricrea, sia nel
testo che nella regia, un’ambientazione ed un linguaggio che ricalca la
tradizione narrativa al femminile
dell’800 inglese. Ne nasce un
film d’amore e di giustizia a carattere storico che descrive la lenta presa di
coscienza della vecchia Europa per i diritti umani.
Il film sostiene la trama di quello che
fu l’esito di un caso giudiziario legato alla tratta degli schiavi, realmente
avvenuto, ma non solo. Il punto di vista delle due autrici, di origini
africane, non presenta la trama solita dell’integrazione accettata dai
“bianchi” verso i “neri” ma una fiera lettura della realtà del tempo ed un
incasellamento sfavorevole per tutti… a partire dalla condizione della donna
(bianca o nera che sia), dalla condizione di nascere povero e di non poter
aspirare ad alcuna scalata sociale… radicata nei pregiudizi e preconcetti di
una “vecchia” borghesia europea.
Le due donne vincono i legami restrittivi
della loro condizione attraverso un sincero legame che le porta, in particolare
la protagonista “Dido”, ad aiutarsi ed a lottare per i diritti umani e la
giustizia.
La protagonista del racconto, Dido
Elizabeth Belle, è realmente esistita. Bellissima donna “mulatta”, figlia
illegittima riconosciuta dal padre, un ammiraglio inglese della Royal
Navy, nata dall’amore per una schiava africana, morta quando lei aveva pochi
anni. Il padre la porta in Inghilterra
ancora bambina e l’affida al nonno
paterno, Lord Mansfield, uomo di
giustizia e personaggio di alto rango in
quanto giudice della Corte Suprema.
Da quest’ultimo personaggio, (anche lui realmente esistito), il film sviluppa la trama della tratta degli schiavi, descrivendo un processo realmente avvenuto: il caso della nave “Zon”, che ci ricorda, in maniera molto attuale, le tristi vicende che avvengono ai giorni nostri con la “moderna schiavitù” o tratta degli esseri umani, drammaticamente sempre più pressante e che vede migliaia di vittime morire nel nostro mare Mediterraneo e sui confini dell’Europa.
Nel film viene dipinto un quadro storico
delle condizioni sociali ed etiche che vigevano nella vecchia Inghilterra, in
un’Europa che in un periodo poi non tanto lontano considerava gli Africani,
catturati per essere venduti, come
schiavi, come “pura merce”. Il fatto realmente accaduto, narra dell’affogamento
di 140 schiavi, lanciati a mare in catene dall’equipaggio e della successiva
causa condotta in Tribunale. La causa si svolge non per l’ingiustizia inflitta
a degli esseri umani, e per la loro morte, ma per stabilire se i mercanti di allora
(provenienti dall’Europa), avevano diritto ad ottenere un risarcimento dalle
compagnie di assicurazione per la perdita della merce.
Tutto ciò accadeva nella vecchia Europa,
patria del diritto, poco più di due secoli fa.
Ed
oggi a che punto siamo? Che si sia fatta strada sui diritti umani in Occidente
è indubbio, ma che sia latente nel nostro sistema un oscuro razzismo, un dare
principalmente valore puramente economico all’uomo, accompagnato da una
incapacità di riconoscere “l’altro da noi” come fratello/sorella/figlio o
semplice essere umano, è anche molto
evidente.
Le vicende della seconda guerra mondiale,
conflitto nato in Europa, che ha visto lo sterminio di milioni di persone in
base alla loro identità culturale, sociale e religiosa, le pulizie etniche ai
nostri confini, anche recentissime, hanno spinto l’Europa a scrivere e
sostenere la “carta dei diritti umani” che contiene principi di lotta contro
ogni forma di discriminazione. Fra questi, uno dei più disattesi è il diritto
di “libera circolazione” che auspica il movimento delle persone “non forzato”…
non “ostacolato”.
Il muro di Berlino è caduto con grande
gioia degli europei, liberando le frontiere interne dell’Europa, ma ora si
alzano fili spinati e muri lungo le frontiere esterne dell’Europa per
fronteggiare le ondate migratorie di persone: donne, uomini e bambini disperati
in fuga da condizioni di vita inaccettabili e disposti a rischiare la morte,
mettendosi in mano ai nuovi mercanti, pur di raggiungere
l’Europa.
Quello che accade oggi in Europa è stato
lungamente preannunciato. Le radici del nostro atteggiamento di fronte a questo
dramma umano non sono tanto cambiate nel tempo. Ci dibattiamo fra solidarietà e
rifiuto razzista. La nostra memoria storica è corta, impariamo poco dagli errori e dalle tragedie
del passato. Ora la crisi è nuovamente “mondiale”. Ci porterà fuori dai nostri
“orticelli mentali”? C’è da augurarselo
per il benessere dell’umanità.
Christina Harrison.