Proponiamo due
passaggi dal libro di Stefania Tarantino, άνευ
μητρός/senza madre. L’anima perduta dell’Europa. María Zambrano e Simone Weil,
La Scuola di Pitagora, Napoli 2014.
Restituire il corpo al pensiero, recuperare il senso della finitezza della
condizione umana – senza perdere lo slancio verso ciò che disloca in un altrove
–, è una delle sfide più complesse che María Zambrano e Simone Weil hanno posto
al pensiero metafisico tradizionale. Individuano il luogo più critico della
tradizione filosofica e del suo impianto concepito gerarchicamente, nel modo
univoco di pensare l’essere vivente e l’intera realtà. La violenza e la
superbia della metafisica occidentale nei confronti dell’oggetto, della
materialità del corpo materno, ha provocato un oltrepassamento senza misura dei
limiti imposti alla condizione umana, a favore di una oggettivazione intellettuale
sempre più calcolante della natura umana e della realtà. La svalutazione
continua e sistematica del corpo-materia ha provocato la distruzione di quegli
antichi saperi che, inizialmente, riguardavano la connessione originaria di
corpo, anima e mondo. In un libro dedicato al posto della donna nella cultura
greca e all’esame delle principali metafore riferite al corpo femminile, Page
DuBois mostra come la «nozione della gravidanza maschile attinga alla
rappresentazione della donna (...), e come le re-iscrizioni del testo platonico
trasformino la rete metaforica del V secolo in una nuova supremazia per il
maschio (...) determinando lo spazio di una nuova iscrizione, la collocazione
metonimica della donna in rapporto a chi le è superiore e inferiore. Questo
avviene nel testo di Aristotele e stabilisce il posto della donna per millenni.
Il filosofo maschio diventa il luogo della riproduzione metaforica, il soggetto
della generazione filosofica; la donna, spogliata della sua alterità
metaforica, diventa un maschio imperfetto, definito per difetto» (Page DuBois, Il
corpo come metafora. Rappresentazioni della donna nella Grecia antica, Laterza,
Roma-Bari 1990, p. 249). Il corpo proprio, reale delle donne, è ridotto
così a mero ricettacolo, che rinvia alla passività muta del corpo-terra.
Tuttavia, l’evento della nascita è quel passaggio relazionale che chiama in
causa una molteplicità di dimensioni: biologica, simbolica, affettiva,
linguistica, sociale, culturale, economica. Nessuna di queste dimensioni può
eludere il corpo della madre; è nel suo corpo che la vita si apre. E, come
Julia Kristeva ci ricorda, l’amore materno è l’aurora del legame con l’altro.
L’innamorato e il mistico lo scoprono più avanti. La madre è la fondamentale
esploratrice, poiché lo psichismo materno si costituisce come luogo di
passaggio da zoe a bios, dalla psicologia alla biografia, dalla
natura allo spirito. La lingua materna presiede anche alla voce della poesia,
sgorga dalla congiunzione di cuore e respiro, di silenzio e parola. Prima che
per comunicare, per veicolare informazioni precise, esprime ed evoca emozioni.
Più che le parole in sé, sono i diversi toni di voce, la loro modulazione e vocalizzazione,
a fare da tramite alle sfumature emozionali che rivelano quell’universo
affettivo che è alla base della relazione madre-figlio/a. Kristeva definisce
ambito del semiotico questa sfera comunicativa che precede il simbolico e che
si nutre del rapporto arcaico con la madre. Una singolare metrica fa
parte della physis, nutre la lingua materna ed è – come si legge in una
meditazione poetica di Antonio Prete – «canto e battito, voce e ritmo. Una
pedagogia materna presiede alla voce della poesia (una Mutterarztlicheit,
diceva Hölderlin). Si tratta, ancora, di una lingua che per dirsi non ha
bisogno della lingua, è mormorio del bosco o voce animale, suono del mare o del
vento, insomma physis: nessuna mimesis può accogliere, se non
mortificando, attenuando, quella sua vita nel linguaggio. Da questa anteriorità
il poeta è in esilio» (Antonio Prete, Meditazioni sul poetico, Moretti
& Vitali Editori, Bergamo 2013, p. 59).
La filosofia, che in loro è apertura infinita di
senso e mai visione del mondo unica e monolitica, diventa la chiave per operare
la trasformazione di una soggettività piena di sé e dell’orizzonte politico in
cui essa è stata iscritta nelle democrazie occidentali. La radicalità della
loro riflessione muove dal ripensamento non solo delle categorie politiche del
moderno, ma dell’umano colto nella sua interezza, un’interezza inscindibile di
naturale e soprannaturale. L’idea di democrazia, di diritto, di persona –
concetti peculiari della conformazione politica dell’Occidente –, sono stati al
centro della loro riflessione.
Con accenti diversi le due filosofe condividono
l’idea per la quale l’essere “solo” pensante sta dalla parte di ciò che comanda
la forza e si rifanno a “quel sapere di non sapere” che ha sempre preceduto la
storia e il pensiero propriamente detto. È da questo non-sapere che è nata la
saggezza, quella che investe realmente modi di sentire e di vivere la vita e
che comporta, per prima cosa, la capacità di sentire e di fare uso del cuore.
La saggezza conosce il limite invalicabile su cui inciampa il sapere razionale,
fino a sporgersi su quell’oltre che lambisce l’infinito e che procede per
indizi. Ogni sapere comporta, infatti, un
travaglio, un risveglio, una ri-nascita in cui il non oggettivabile irrompe
alla coscienza e dove le convinzioni si sgretolano.