“Ogni pensare esige un fermati-e pensa”.
Così Hannah Arendt nella sua ultima opera incompiuta dedicata alla vita della mente, riassume il senso dell’esperienza dell’io che pensa.
Un’esperienza che, lo dico subito, sarebbe errato attribuire soltanto a coloro che non senza una qualche ironia ella chiama i “pensatori di professione”, ma che riguarda tutti e tutte noi in quanto bisogno naturale della vita propriamente umana, in quanto facoltà presente in ciascuno/a di noi di discernere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. È questo, infatti, ciò che la pensatrice ebreotedesca tenta coraggiosamente di rintracciare nell’attività del pensare: la sua effettiva ricaduta sulle faccende morali, il peso che esso ha nella scelta che facciamo di noi stesse/i e sulla responsabilità che abbiamo verso gli altri.
Eppure, come sappiamo, tutto ciò non va da sé perché è proprio con il pensiero che si è arrivati a raggiungere la massima e più completa astrazione dalla realtà, che si è riusciti a espungere la concreta presenza degli altri per teorizzare l’Uomo in generale, che, in una parola, si è arrivati a quell’alienazione totale dal mondo che rappresenta il maggior pericolo di uno sradicamento che ha già mostrato i suoi effetti irreversibili. Sappiamo anche che tutto ciò che il pensiero tradizionale ha afferrato nel concetto come puro ed eterno è sempre stato disgiunto dalla dimensione corporea e sensibile. Ecco perché la centralità della condizione umana in Arendt, significa, in primo luogo, la riabilitazione della sfera fisico-corporea e, con essa, la nostra appartenenza ‘terrena’ al mondo. Partendo da questo assunto, ella evidenzia come l’impianto della metafisica occidentale sia stato, fin dalle origini, funzionale ad un certo modo di vedere non solo l’essere vivente ma anche l’intera realtà, dove il piano materiale dell’esistenza è stato rimosso e subordinato al controllo di quello spirituale e trascendente. Da qui il suo concentrarsi su parole come pluralità, natalità, mondo. Parole da rimettere al centro della politica e della nostra vita, dal momento che ci aiutano a ripensare, a dare nuova misura e rinnovato senso alla condizione umana contro l’ipertrofia di una soggettività univocamente plasmata e piena di sé.
Riprendendo la distinzione kantiana tra ragione (Vernunft) e intelletto (Verstand), tra pensare e conoscere, la Arendt spingendosi molto più in là di Kant, mostra come il bisogno di ragione, a differenza del bisogno dell’intelletto, sia connesso a ciò che in sé permane ignoto e invisibile. La ragione, nel cozzare contro i limiti oggettivi di ciò che è conoscibile, intercetta nella ricerca di significato il bisogno di com-prendere, di dare senso all’esperienza inoggettivabile della vita, mentre l’intelletto, nel suo rimanere entro i limiti di ciò che è visibilmente e oggettivamente dato, corrisponde piuttosto alla ricerca della verità. Per quanto la tradizione filosofica ha tendenzialmente sovrapposto i due termini sottomettendo la ricerca del significato agli stessi criteri della verità, essi stanno a indicare, invece, due modi diversi di presa sul reale. Mentre nella ricerca del significato non c’è risultato, né una risposta a ciò che si vuole sapere, nella ricerca della verità ciò che è in gioco è la dimostrazione, la validità della definizione. In questo senso, la Arendt sottolinea come il pensare sia analogo al lavoro senza fine di Penelope, che tesse e disfa la sua tela ininterrottamente senza mai arrivare a un risultato concreto del suo lavoro. Un lavoro a perdere, quello di Penelope, se visto con gli occhi di chi pensa secondo il modello utilitaristico – in cui tutto ciò che si fa deve avere come suo effetto qualcosa di tangibile –, un lavoro che ha senso in sé, se visto con gli occhi di chi invece vede nel pensare un’attività che rende presenti e vivi davanti a sé e agli altri. La grande scoperta socratica fu quella di individuare nel pensiero la scissione del soggetto in se stesso, di comprendere il pensare come un “dialogo senza voce di sé con se stesso”, dal momento che, in quest’attività invisibile, non siamo mai uno ma un “due-in-uno”. Il pensare socratico ha la sua dimensione più propria nell’accordare la dualità delle voci che albergano dentro di noi, e rappresenta una pre-condizione irrinunciabile per il confronto con gli altri, così come la solitudine lo è per l’amicizia.
Nel ricostruire la genesi etimologica della parola teoria, la Arendt parte da una parabola attribuita a Pitagora e narrata da Diogene Laerzio. Qui si racconta di come in Pitagora la posizione dello spettatore, cioè di colui che si mette in “un punto d’osservazione fuori dal gioco”, sia strettamente connessa alla nascita del termine filosofico teoria. Attraverso lo sguardo disinteressato degli spettatori, i theatai, si riusciva ad assumere una posizione imparziale, impersonale, vale a dire sganciata dalla soggettività personale. Davanti al miracolo del mondo, essi avevano la necessità di porre una distanza tra loro e ciò che vedevano, ed è soltanto in quello spazio intermedio tra soggetto e oggetto che la loro visione riusciva ad assumere una vera e propria imparzialità. Questo fu il terreno da cui nacque la contemplazione. La sensibilità di fronte a questa dimensione spettacolare del mondo, fu ciò che portò i greci a fare esperienza di quel qualcosa, che seppur non si offriva
immediatamente alla percezione dei sensi, appariva nella sua straordinaria e ineffabile bellezza.
Così, fu attraverso la scoperta di un ordine armonioso e invisibile racchiuso nel mondo delle apparenze che la filosofia ebbe inizio. Il punto di partenza del pensiero, com’è noto, fu lo stupore (thaumazein). Esso nacque dalla scoperta di un ordine-armonia (kosmos) invisibile celato dietro le apparenze. Qui la Arendt mette in risalto come tale invisibile nel visibile sarebbe rimasto per sempre ignoto se non ci fossero stati spettatori che lo avessero contemplato, ammirato, così come mette in risalto il fatto che il thaumazein è un pathos, qualcosa da patirsi e non da agirsi, nel senso che comporta sempre una sorta di passività e di abbandono. Ciò di cui anche ci si rendeva conto era che nella contemplazione era possibile cogliere il significato dell’insieme. La priorità della visione per la vita della mente ebbe origine da questa antica esperienza. Attraverso lo sguardo ammirato di chi era preso da stupore, si rendeva presente ciò che era assente e se ne faceva un costante oggetto di discorso. La theoria era dunque originariamente intesa come una vera e propria modalità di
messa a distanza e, allo stesso tempo, come qualcosa che, per quanto prevedesse un ritrarsi, non era indipendente dalle percezioni degli altri. Arendt sottolinea come gli spettatori di Pitagora erano ancora membri di un pubblico e perciò del tutto diversi dal filosofo che diede inizio al suo bios theoretikos proprio abbandonando la compagnia dei suoi simili. Nello spettatore pitagorico, infatti, si aveva a che fare con un ritrarsi del giudizio che era altra cosa rispetto al ritrarsi dal mondo delle apparenze del filosofo. Vedremo nella seconda parte di questo percorso come, mentre in quest’ultimo il ritrarsi comporterà una solitudine e un abbandono volontario dagli altri, nel primo si era ancora parte di un pubblico, si dipendeva dalla presenza degli altri e dalla condivisione di un mondo comune per il proprio senso della realtà. ...
continua ....
Stefania Tarantino